Art brut. Presunti “matti” e straordinari artisti

L’utopia realizzata è in Oltretorrente

A metà di via Bixio, tra un locale chiuso e uno appena aperto, c’è un posto magico che ancora in pochi conoscono. Io ci sono inciampata per caso circa sei mesi fa, ci sono proprio cascata dentro, come Alice Cascherina nella bottiglia di vetro. Il marciapiede è stretto e dissestato, inciampare è facile, ma rimando volentieri la senz’altro interessantissima descrizione del sinistro ad una segnalazione ufficiale al Comune che non farò mai, per raccontarvi, invece, del perché da quel posto non me ne voglio più andare.

La Galleria Rizomi, nascosta dietro una vetrina in penombra e tacitamente sorvegliata da un grottesco guardiano di legno, è la prima e ad oggi unica galleria di Art Brut in Italia.
In pochissimi sanno cosa s’intenda per “Art Brut” o sanno collocarla nello scenario artistico storico e contemporaneo senza fare confusione e senza usare la parola naïf da qualche parte. Io per prima ne avevo un’idea annebbiata e un’opinione informe finché Nicola e Caterina, i proprietari della galleria, non mi hanno introdotta nel loro mondo, mostrandomi i lavori di Carlo Zinelli, Giovanni Battista Podestà, Royal Robertson e altri tra i più conosciuti di questi maestri nascosti.

L’Art Brut è, per definizione, incapace di rivelare la propria esistenza

L’Art Brut è, per definizione, incapace di rivelare la propria esistenza, proprio come questa piccola galleria, con la sua luce a metà e il suo guardiano muto. Ha bisogno di qualcuno per essere scoperta ed è questo che avvenne storicamente, quando nel 1945 il pittore e scultore francese Jean Dubuffet intraprese una ricerca basata sulla personale convinzione che dovesse esistere da qualche parte un’arte pura, anonima e autentica, lontana da quella dei musei e dei salons. Dubuffet partì per un viaggio in Francia e in Svizzera senza sapere bene cosa stesse cercando ma aspettandosi di trovare opere e oggetti che non avessero niente a che fare con l’imitazione dell’arte istituzionalizzata, che non seguissero alcune regole estetiche o tecniche ma che, al contrario, derivassero unicamente e direttamente dalle risorse e dagli impulsi interiori dei propri creatori. La trovò davvero, forse c’inciampò. Scoprì innanzitutto che gli ospedali psichiatrici e le prigioni erano spazi di grande creazione, ma la sua scoperta e la successiva definizione di quello che oggi viene chiamato “Art Brut” comprende tutti gli artisti che non hanno interesse né ambizione di esserlo, che lavorano in solitudine o in segreto, senza un pubblico né un mercato in mente. L’Art Brut non è una corrente artistica ma il fenomeno ideologico che raccoglie e in silenzio manifesta un’arte clandestina, segreta, imprevedibile e per questo così controversa e ancora oggi così discussa dai critici.

Lascerei il saggio critico ad un futuro probabilmente inesistente, insieme alla segnalazione del marciapiede. Non ho ancora studiato abbastanza quindi mi limito a riportare i fatti: quello che so è che esiste un posticino nascosto nel cuore dell’Oltretorrente che, nella meraviglia della sua spontaneità, vale la pena di essere scoperto.

Sei mesi fa sono inciampata in via Bixio e mi sono ritrovata a essere parte di un progetto che la galleria aveva avviato da poco: un atelier dedicato, sulla base del concetto di Art Brut, alla purezza espressiva e alla creazione libera da regole e condizionamenti; uno spazio aperto e multiforme pensato soprattutto per persone con fragilità mentale ma accogliente per tutti coloro che s’interessano ad un tipo sperimentazione visiva e di pensiero che si allontani delle tendenze dominanti.
Sembra la bella idea di uno che non sa a cosa sta veramente cercando, ma adesso, dopo un breve periodo in cui questa realtà è diventata per me il più importante degli appuntamenti e il più coccolato dei sogni, posso dirvi anche che è successo proprio così e anche di più. Vorrei tuttavia provare a scriverne senza sentimentalismi per evitare che suoni falso ed eccessivo o che le parole abbiano il ritmo retorico e costruito di una lettera d’amore scritta per qualcuno che non si ama abbastanza e che si prova disperatamente ad amare trasformandolo in destinatario epistolare. Cercherò a fatica di evitare tutti le ridondanze e le formule iperboliche già masticate perché questo posto è reale, non assomiglia a nessun altro e soprattutto di sentimentalismi non ha alcun bisogno.

L’Atelier è innanzitutto un luogo che non esiste. O meglio, non è un luogo. Occupa i locali al secondo piano della galleria, dove un disordine di fogli e colori sta lì e aspetta che qualcuno lo stravolga per l’ennesima volta. È lì ma è anche nel bar all’angolo, nella cartoleria di fronte; si è accoccolato nel quartiere facendosi spazio piano piano, senza fatica. E l’Oltretorrente lo ha accolto a sua volta, ogni giorno ma in particolare un giovedì di fine Maggio, in occasione della grande mostra collettiva che ha raccolto i lavori fatti durante i primi mesi.
Così come non ci sono muri a contenerlo, allo stesso modo ogni confine mentale si sbriciola come un biscotto nel caffè. Non ci sono medici e, di conseguenza, non ci sono pazienti: non si capisce nemmeno bene chi sia matto e chi no, alla fine ti convinci che i matti o non esistono o sono da tutt’altra parte.
È un luogo che non esiste perché è fatto delle persone che lo attraversano: di quelle che si fermano per ore senza riuscire a smettere di disegnare, di quelle che parlano solo con se stesse e di quelle che parlano con tutti, di quelle che scrivono rime luminose, di quelle che scattano fotografie e di quelle che dipingono soltanto soldatini. È un piccolo multiverso fatto di tutti gli universi che gli artisti liberano al suo interno. Non si sa chi sia matto e chi no ed è così bello frequentare un posto in cui non è richiesto essere normali.


L’unica sconcertante differenza tra me, presunta “normale”, e loro, presunti “matti”, è la naturalezza del loro approccio alla creazione e la semplicità con cui il loro gesto, umano e artistico, riesce a rendere ridicola e inutile la mia esitazione e la mia irrigidita compassione.

Finito. L’ho fatto io.

Io, mendicante di idee, conosco molto bene la frustrazione cosmica che si prova di fronte a un foglio bianco, quando viene il momento di decidere cosa disegnare o cosa scrivere, e tutte le parole o le forme del mondo si raccolgono in un’idea così specifica eppure così sfuggente e irriproducibile. Gli artisti dell’atelier invece non conoscono questa paura e non si fermano davanti al mostro del vuoto. C’è Anna, per esempio, che su grandissimi e vuotissimi fogli parte subito sicura tracciando rosoni di forme geometriche perfette, che a volte si intersecano, a volte si schivano generando volti di regine e stregoni di altri mondi. Oppure Luca, che nel giro di cinque minuti inventa paesaggi incredibili o disegna luoghi esistenti ma lui non lo sa ed è molto fiero di inventarli. Finito, dice. L’ho fatto io.
È così, semplice come dice lui: come un opera d’arte che sembrava troppo assurda per essere concepita e che poi, quando qualcuno la realizza, non poteva che essere così, non poteva che diventare se stessa. Gli artisti dell’Atelier I Cachi lavorano con la naturalezza dell’albero che diventa albero e che non ha paura degli strani nodi dei suoi rami né si preoccupa di quanto profonde cresceranno le proprie radici. Molte delle loro opere hanno un valore estetico oggettivo e la grande qualità di saper parlare all’universo interiore di chi le guarda, di svelare il te stesso più nascosto, quello che da solo non riesce a rivelarsi.

Sembra un’utopia e invece è proprio lì, nel centro di un quartiere di cui tutti continuiamo a lamentarci e in cui sembra che non funzioni mai niente e di certo niente era come era una volta, quando i bambini potevano giocare per strada, gli anziani erano tranquilli e i matti erano in manicomio.

Questa è una di quelle storie realmente accadute, anzi, che accadono adesso, a cui vorrei che si dedicasse non solo un sorriso, ma un pensiero profondo di quelli che fanno perdere il ritmo e inciampare. 

Laura Fava

Foto: Arianna Ferretti