
Caro Antonio… Parma è senza più memoria e identità
Caro Antonio,
Ti scrivo e rispondo pubblicamente dopo aver letto il tuo pezzo sulla necessità di creare un museo della fotografia a Parma. Un bel progetto che non troverà mai spazio e non troverà mai realizzazione, come accade per tanti bei progetti che a Parma cadono ogni volta nel vuoto perché, in fondo, non interessano a nessuno. Perché Parma è così, immobile, dove tutto cambia perché non cambi niente. Quante volte abbiamo discusso io e te, insieme a tanti altri amici, su questi temi. Le idee non mancano, mancano le persone che credono nelle idee e non parlo solo dei politici, ma anche della gente comune che condivida progetti con la loro partecipazione. Mancano prima di tutto i parmigiani. Il problema, come vedi, è complesso e profondo.
Parma è una città che sta invecchiando velocemente, lo si vede da questo continuo atteggiamento di nostalgia verso un passato che non tornerà. Si parla sempre di cultura pensando a quando qui c’era l’editore Guanda, Bertolucci, i caffè letterari, com’erano bravi i giornalisti di allora… questa retorica guarda ad un’epoca di almeno 70 anni fa, e fa bene perché non fa pensare e non guarda al presente. È una memoria che, posta così, risulta inoffensiva, nostalgica, che fa bene a tutti e scalda il cuore. Nel frattempo, in questi settant’anni, “L’officina parmigiana” ha continuato a crescere con nuovi scrittori, poeti straordinari, libri importanti a livello non solo nazionale, e nuove case editrici, con progetti intelligenti e cosmopoliti risultando molto più interessante di quella degli anni trenta-cinquanta. E con giovani autori. Tutto questo l’ho raccontato nel mio libro La città d’oro, Parma, la letteratura 1200-2020, Libreria Ticinum Editore 2020, dove ho cercato di cogliere le continuità di una cultura che affonda le sue radici nel passato, non con un intento storicistico o museale, ma come progettualità spinta verso il futuro. Per parafrasare un bellissimo libro di Hanna Arendt “Il futuro alle spalle”, ma non come retorica di un mondo bello che non c’è più, non come nostalgia ma dove le tradizioni sono pensate come progetto per il futuro.
Caro Antonio, il museo della fotografia è un bel progetto che non interessa a nessuno, perché oggi Parma ha un problema di identità e di memoria, un po’ come tutto il paese Italia. Più che capire, la città rimuove, più che affrontare i problemi, svicola. Aprire un museo della fotografia a Parma vuol dire interrogarsi sulla propria identità, su ciò che è successo negli ultimi vent’anni. Forse aiuterebbe a fare una riflessione perché la fotografia, e lo sai meglio di me, ci mette di fronte ad uno specchio, e forse non siamo ancora pronti per guardare quello che è accaduto in questi due o tre decenni, una città sconvolta e devastata da scandali e fatti politici, tragedie che hanno fatto parlare male di noi nel mondo: il crollo di una multinazionale, la svendita a due euro di una banca secolare, un’intera classe politica sotto processo… e potrei andare oltre. Forse non ci siamo ancora ripresi da quello shock e ci vorrà tempo.
Parma non è ancora pronta per fare una seria riflessione sulla storia degli ultimi anni, e non è una bella storia da raccontare, perché ne ha macchiato profondamente l’immagine. Negli anni Novanta c’erano tre elementi che facevano Parma una città “attraente”. Il Parma calcio in Europa, ai primi posti in campionato e nelle Coppe, era una pubblicità planetaria con giovani che volevano venire a Parma perché si stava bene ed era una città vincente. Il secondo polo era l’Università, era una città spinta a diventare una città universitaria; terzo il lavoro che qui non manca, specialmente quello stagionale che aiuta gli studenti a trovare risorse economiche per studiare. Oggi abbiamo una squadretta retrocessa in serie B tutta da ricostruire; l’Università che deve affrontare sfide difficili per il suo futuro in un mondo globalizzato e soffrirà sempre di più la concorrenza: oggi posso laurearmi a Barcellona o a Oxford seguendo le lezioni da casa mia, perché venire a studiare a Parma? Non è una domanda banale che deve far ripensare i contenuti e la ricerca. Terzo il lavoro: formiamo giovani che se ve vanno perché qui non c’è futuro. Quindi non investiamo sul nostro futuro.
Parma ha un problema d’identità perché ha un problema di memoria e dunque ha l’urgenza di capire ciò che vuole essere e soprattutto quello che vuole diventare: Parma capitale della cultura? Capitale della musica? Capitale letteraria? Capitale dell’arte? Capitale del teatro? (Quel gioiellino del Teatro del Vicolo devastato da scelte sbagliate e il teatro del dialetto mai nato) Capitale turistica? Capitale della gastronomia? (Io non vado in una città per mangiare, ci vado per vedere arte, bellezza, storia e poi mangio!) Capitale della bicicletta? Alla fine Parma non è capitale di niente perché in questi vent’anni non ha saputo davvero costruire una sua immagine e dunque una storia da raccontare perché della storia degli ultimi anni ci si vergogna un po’ e si rimuove tutto e quindi si va oltre, si passa direttamente al nostro rinascimento, al medioevo. Il problema della memoria è soprattutto, come ci siamo detti tante volte, un problema di identità e dunque di immagine e di comunicazione. E soprattutto di coesione, di volontà comune: Parma è una città divisa, sotto shock, senza una visione comune, senza un progetto condiviso con entusiasmo.
Non è riuscita a diventare Salisburgo, non è riuscita a diventare una capitale dell’editoria e nemmeno dell’arte, (sono dieci anni che non si ospita o si pensa ad una mostra capace di portare almeno 50 mila persone in città e le idee non mancano); non ha un festival da più di dieci anni, mentre città come Aosta, Pordenone, Padova, Brescia, Reggio Emilia e Modena… e potrei continuare a lungo, tanto per citare quelle più o meno vicine a noi, hanno saputo investire e raccogliere molto in questo senso. Io penso che la storia recente abbia colpito duro, e l’anno del possibile rilancio con Parma Capitale della cultura, (che meraviglia i giorni dell’apertura in quei giorni caldi di gennaio 2020!) colpita pure dalla pandemia, ha spento quella poca energia che rimaneva. Siamo tutti un po’ più tristi e disillusi e questo non ci fa bene. Ci aiuterà la ripresa?
C’è qualche segnale positivo, ma fondamentalmente Parma è una città che sopravvive, agonizza perché in crisi d’identità. S’intravedono timidi tentativi ma, ahimè, è una città sempre più vecchia e sempre più sclerotica nel senso etimologico di indurita, irrigidita. Divisa. Anche come reazione a quegli eventi si è chiusa ancora di più, dove ognuno coltiva il proprio orticello senza una vera e propria condivisione d’intenti, per il bene comune. La dirigenza, a parte qualche eccezione che conferma la regola, è di ultra sessantenni. Basta guardarsi attorno: dove una volta c’era una banca, a Barriera Repubblica, oggi c’è un centro per badanti. Le elezioni del prossimo anno stanno paralizzando le scelte, per cui la città si è ancor più irrigidita, e per uno o due anni non si farà nulla di concreto, non ci saranno scelte nel tempo lungo per convenienza politica, pur essendoci problemi urgenti e credo drammatici da risolvere. E si continueranno a fare dibattiti e riflessioni su come vogliamo Parma fra dieci anni, mentre bisognerebbe pensare a cos’è stata Parma negli ultimi venti o trent’anni. E agire adesso, non fra dieci anni. Non vogliamo fare i conti con il nostro recente passato, perché se Parma è come la viviamo oggi è il risultato di questo lungo periodo storico e il futuro lo si gioca in questo doppio sguardo.
Parma non ha un museo di arte contemporanea perché non ha mai investito sul contemporaneo, perché sempre più ripiegata sul proprio passato nostalgico, non ha e non avrà un museo della fotografia, non ha un museo decente dedicato a Bodoni, relegato all’ultimo piano della biblioteca “Palatina” che ogni tanto s’imbelletta di nuovo, ma è sempre all’ultimo piano, dove non si sono mai creati laboratori, master o progetti con fondi europei, anche legati all’Università, per giovani editori grafici e giornalisti. Un museo non deve solo custodire o fare archeologia del passato, non deve essere seduttivo per i turisti, deve essere anche una forma di progettazione per il futuro del posto in cui sta. Un luogo di formazione, e il museo Bodoni non lo è mai stato.
Il centro storico di Parma è brutto, sta morendo con tutti i suoi negozi storici perché, come insegna la storia, ed è strano che nessuno né parli, le città muoiono, si trasformano, evolvono o spariscono. (E il problema è di gran parte le città italiane!) Le scelte, guarda caso, degli ultimi trent’anni, di costruire nella prima periferia le nuove piazze dei centri commerciali hanno modificato i comportamenti e la socialità di tutti noi. La rivoluzione dell’e-commerce degli ultimi dieci anni ha dato il colpo definitivo al centro (lo farà con i centri commerciali come sta accadendo in America?). Come farlo resuscitare, facendolo diventare una mensa per i turisti? Vogliamo diventare come Venezia, una disneyland del Correggio e del Parmigianino? Con festival dedicati a Verdi e Toscanini che rispetto a quelli mondiali sono, diciamo la verità, con tutta la buona volontà di tutti, dei festivalini? Ma bastano due o tre festival all’anno per farne una capitale della musica? Io pongo solo il problema non voglio fare polemica non m’interessa.
Le scelte sbagliate creano mostri. Dopo il ponte sul Parma (c’era anche un grattacielo a fianco per fortuna mai costruito, ricordi?, o la follia megalomane della metropolitana leggera in una città dove si gira in bicicletta e adesso anche con l’orribile monopattino che da bambino odiavo), ecco il moncone dell’autostrada Parma Ovest-Viarolo. Detta così fa ridere ma è la verità. Un esempio eclatante, comico perché tragico. Un moncone inutile che ha devastato la campagna e il paesaggio con i nostri soldi. Per il futuro si punta tutto sul trasporto e sulla logistica, ma quando le merci non faranno più scalo dalle nostre parti, cosa produrremo? Cosa accadrà? Dove sta la nostra ricchezza, nel food? Bene, ma allora le scelte devono essere verso il risanamento della Pianura Padana dall’inquinamento, che vanta il triste primato di essere tra le più inquinate della terra. (Sinceramente, non so come si possa fare del biologico in pianura padana: una contraddizione in termini. Non credi?).
E non saranno problemi da poco. I prossimi candidati a sindaco sapranno mettere sul tavolo un progetto serio e soprattutto credibile, condiviso, entusiasmante, nel senso etimologico del termine, capace di spingere una città verso un futuro migliore? Avremo candidati colti, intelligenti, culturalmente preparati alle sfide del futuro, che guardino davvero al bene comune della città, facendo scelte per il bene di tutti e non solo di parte o solo per la convenienza della loro rielezione? Avremo una politica capace di riportare in primo piano i fondamenti del vivere nella polis? O dobbiamo aspettarci ancora una volta un candidato sparato dal basso o peggio ancora dall’alto com’è successo in questi anni? Ci sarà nel suo programma anche l’idea del tuo museo della fotografia? Dubito fortemente.
Caro Antonio, il problema del museo della fotografia va inquadrato in un sistema molto più complesso di riflessione e progettazione della città. Hanno ragione gli architetti, bisogna “ridisegnare la città” ma per fare questo c’è di fondo, e lo sottolineo, un problema narrativo. La narrativa, (non lo storytelling del marketing pubblicitario) sta alla base di ogni scelta non solo politica ma anche sociale. Devo sapere prima di tutto quello che voglio comunicare. Come raccontare la città, con i soliti stereotipi di cui dicevo sopra? Ecco perché ho scritto La città d’oro, perché se Parma ha una crisi d’identità è perché ha smarrito il senso del suo racconto e dunque la trama del suo destino.
Si organizzano dibattiti su come vogliamo o pensiamo la città nel 2030. Giorgio Triani ci ricorda ridendo che ogni inizio decennio si fa una riflessione di questo genere e che si sbagliano sempre tutte le previsioni. Chi avrebbe pensato nel 2010 ad una Parma come la vediamo oggi? Vedere le immagini di via Cavour durante la vasca degli anni Ottanta non mi fa venire la nostalgia di quegli anni, mi pone invece il problema su come torneremo a vivere il centro storico nel prossimo futuro (invaso dai turisti ma senza parmigiani?). La fotografia fa pensare, fa riflettere, a volte spaventa e a volte ci fa venire la nostalgia. Nel mondo annebbiato dalla “furia delle immagini” come l’ha chiamato Fontcuberta, il museo della fotografia a Parma spaventa perché mette la città di fronte al suo più recente passato. Meglio non vedere, o far finta di non vedere.
E tutto questo mentre c’è in atto una rivoluzione nel dna della città, come spesso è accaduto nella sua storia. La crisi d’identità è una crisi sociale e culturale. Tu che sei un esperto dell’Oltretorrente l’hai fotografato nell’anima. Tu sai che quel libro è già diventato storico, è un mondo per certi aspetti sparito a distanza di due anni. Se togli tutti i negozi etnici o gestiti dagli indiani (hanno il monopolio della frutta e verdura, dei caffè e delle rivendite) rimane poca “parmigianità”, solo i vecchi resistenti, qualche giovane che gestisce pizzerie, qualche volenteroso che apre una galleria d’arte, ma è troppo poco. Invece qui vivono “extracomunitari” che dovremmo imparare a chiamare “i nuovi parmigiani”, e questo sarebbe già un nuovo modo rivoluzionario di pensare a questi che sono, volenti o nolenti, i nostri nuovi vicini di casa. E saranno sempre di più. Sarebbe interessante prevedere, fra dieci anni, ma nessuno l’ha ancora fatto, la nuova conformazione demografica della nostra città. La rivoluzione demografica, caro Antonio, è un altro tema fondamentale di cui nessuno parla, una bomba che spaventa, e che riguarda il tema della memoria e dell’identità. Di fronte all’invecchiamento dei parmigiani che non fanno figli, con figli e nipoti che se ne vanno all’estero a lavorare dopo essersi formati qui, e non torneranno più indietro, chi si preoccuperà del futuro di questa città, della nostra arte, della nostra musica, dei nostri archivi? A chi lasceremo questa città?
La realtà etnica e sociale è complessa ed è destinata a cambiare profondamente la città: ci sono già indiani, nigeriani, marocchini, ci sono comunità invisibili ai media, (se non per i reati) che lavorano, producono e creano ricchezza, sono affermati professionisti come capita con gli albanesi. La nuova parmigianità che c’è e avanza celermente, non è solo da studiare. Fra dieci anni forse avremo un sindaco albanese, marocchino o nigeriano? Gentian Alimadhi, avvocato, arrivato in Italia nel 1993 dall’Albania, qualche anno fa si era candidato alle primarie per diventare sindaco. A Londra è già successo e non c’è da stupirsi. Le società evolvono, cambiano. Se è bravo, intelligente, colto e preparato, perché no? Ma quanto sappiamo comunicare a questi nuovi parmigiani la nostra cultura, le nostre tradizioni, la nostra storia imbalsamata spesso nella retorica più vuota? Lo sai meglio di me, non basta lo storytelling di qualche mago della comunicazione. O qualche bravo pubblicitario. Bisogna capire quanto conta la forza del territorio rispetto alle dinamiche di una cultura che resiste dopo la prima, la seconda o la terza generazione. I casi di cronaca lo dimostrano tutti i giorni, i figli della prima ondata tagliano i ponti con la cultura di provenienza e lo scontro è intestino e famigliare prima che sociale.
Un’altra riflessione prima di chiudere. Da tempo ho in classe bambini intelligenti e svegli che vengono dal Punjab, una regione dell’India che fa circa 50 milioni di abitanti, poco meno dell’Italia. (Tra bassa parmigiana, reggiana e cremonese sono circa 8/10.000 persone). Per curiosità sono andato a vedere le immagini sul web, e mi sembrava di vedere la nostra bassa emiliana, con i campi, le culture, i fiumi, le viti e anche la nebbia. (La fotografia è racconto e rivelazione). I nostri figli e nipoti hanno studiato e rinunciato alla terra, i lavoratori del Punjab cercano un riscatto sociale qui da noi contro il paese natio dove le caste sono opprimenti. Loro hanno preso il posto che era tradizionalmente nostro e lavorano sodo. Noi abbiamo tagliato i ponti con la nostra cultura diventata museo per turisti, i musei del cibo, loro lavorano e guadagnano, si riscattano. Questi sono i nuovi parmigiani, perché loro sono molto più a casa di noi. E i politici parlano di integrazione senza avere alcuna cognizione del quotidiano. Parma non avrà futuro se non si lega profondamente al suo territorio, alla provincia, con un disegno complessivo, e questa è un’altra grande lezione che ci viene dalla storia e dagli eventi che accadono.
Caro Antonio, scusa la lunghezza della mia lettera, oggi che non si scrivono più lettere ma solo e-mail. Il problema è complesso e sinceramente di questi temi non frega niente a nessuno, non si affrontano. Meglio evitare perché qualcuno si potrebbe offendere, i webeti sono sempre pronti a scatenare la loro frustrazione, e futuri candidati non si muoveranno perché ciò può nuocere alla loro immagine o alla loro possibile elezione, suscitando reazioni incontrollate nei possibili elettori. Io amo la mia città, non butto nulla per terra, non mi drogo e quindi non alimento il commercio della droga, cerco di scegliere i migliori ristoranti, compro nei negozi e non alimento l’e-commerce, studio, pubblico libri sulla mia città, creo idee… faccio quello che posso ma lo faccio. Se mi chiedono una collaborazione cerco di farlo con il massimo entusiasmo. Cerco di offrire idee e riflessioni per amore della nostra città. Come diceva Salvemini, “Il mondo sarà rinnovato se ciascuno lavorerà nel proprio paese a rinnovarlo”. Ognuno deve fare la sua parte, e questo vale per ogni singolo parmigiano. E’ un problema di responsabilità personale. Il richiamo è, prima di tutto, rivolto ai singoli parmigiani e poi forse avremo una classe politica migliore, all’altezza. Forse questa è la prima lezione. Io ho la fiducia dello sfiduciato, ho la speranza del disilluso e ho anche l’entusiasmo di chi sa che tutto, malinconicamente, finirà nel nulla, compreso il tuo progetto sulla fotografia o la mia lettera di risposta. Ma almeno ci scriviamo. Alla prossima.
Guido Conti