Alla ricerca del burro perduto

C’erano una volta i tortelli

Ah, maledetto burro!: una battuta degna di Shakespeare che il povero maestro Giuseppe Verdi avrebbe potuto mettere in musica in qualche sua opera, rendendola immortale. Non poteva chiudersi nel migliore dei modi una gioiosa serata in compagnia di amici, in un ben noto ristorante del centro di Parma. “Andiamo a mangiare lì, siamo comodi!” abbiamo detto. Presi dall’entusiasmo di vivere quel che resta della movida parmigiana di qualche anno fa, (alle otto di sera il centro era tristissimo) siamo andati pimpanti verso il locale.
Nel correre lungo le sale abbiamo incontrati ai tavoli solo turisti. “Bene” abbiamo detto, “c’è turismo in città!” Cinesi, giapponesi, coreani: quest’ultimi ogni tanto accennavano qualche nota di bel canto.
“Se non ci fossero loro, gli orientali, a quest’ora il nostro conservatorio avrebbe chiuso i battenti!” ha detto un signore elegante dall’accento milanese, seduto vicino a noi, che pranzava da solo.
Che Parma si stia orientalizzando si nota dai negozi di oggettistica inutile che aprono in tanti quartieri cittadini, accanto ai centri massaggi con luci al neon intermittenti, con donnine orientali stampate su fondi rosa che nascondono in verità quello che una volta veniva definito “un lupanare”.
“La squadra del Parma è cinese” ha continuato l’uomo. “I nipoti di Mao compreranno l’aeroporto e infine faranno razzia anche dei prosciuttifici e delle vostre migliori aziende! Ecco dov’è finita la tanto sognata rivoluzione culturale, nel capitalismo più sfrenato. Ma questa gente, alla fine, le paga le tasse o no?” ha continuato a dire il nostro vicino. Mancava solo che parlasse dei cinesi morti che spariscono e non si sa dove vengono spediti, che le frasi fatte c’erano tutte. E infatti, alla fine, la frase sui cinesi morti l’ha detta.
“Ma davvero li spediscono nei container? Qui non muoiono mai” ha sottolineato uno degli amici a tavola con noi, come se stesse pensando ad alta voce.
“Cominciamo bene” ho pensato.

No, abbiamo solo queste due bottiglie

Pronti per l’ordinazione abbiamo notato nella lista dei vini solo un paio di bottiglie di lambrusco. “Ma con tante bottiglie buone, perché non offrire ai clienti una bella lista di vini delle nostre colline?”
“No, abbiamo solo queste due bottiglie” ha risposto deciso il ristoratore.
“Perché solo due bottiglie quando ci sono etichette in zona di grande qualità?”
Alla fine non ha risposto. Non dico avere in lista l’eccellente lambrusco di Reggio e di Modena, ma almeno poter scegliere… No! C’è solo questo!”
Per chi non ama lambruschi pastosi e gasati, molto frizzanti, vincitori di tanti premi che però lasciano una certa acidità di stomaco, non c’era possibilità di scelta su bottiglie, per esempio, di lambrusco rosé, leggero e forse più godibile con gli antipasti e i primi tradizionali.
I salumi erano buoni, la torta fritta piuttosto ammassata, talvolta cruda e troppo unta, a volte troppo secca. “La torta fritta è un’arte. Almeno qui fanno la losanga grande. Ci sono ristoranti non solo del centro in cui va di moda fare la torta frittina in triangolini così piccoli… che gridano vendetta!”
“Ma va di moda!” ha detto una mia amica.
“E chi se ne frega della moda!” ho risposto, “la torta fritta dev’essere di losanga grande, morbida, non unta, leggera come una nuvola. Non puoi mangiarne tre o quattro pezzi e sentirti sazio perché appena ingerita ti gonfia reagendo con il lambrusco esplosivo. Giovanni Ballarini insegna”.

La torta fritta dev’essere di losanga grande, morbida, non unta, leggera come una nuvola. Non puoi mangiarne tre o quattro pezzi e sentirti sazio perché appena ingerita ti gonfia reagendo con il lambrusco esplosivo. Giovanni Ballarini insegna.

Ma il dramma è arrivato al tortello. Tutti e otto volevamo mangiare, finalmente, un tortello d’erbetta alla parmigiana. Lo decantavo agli amici che venivano da fuori provincia. E ho descritto come sarebbe arrivato sulla tavola, preparandomi in quel modo alla delizia del palato. La delusione invece è stata tanta quando il tortello d’erbetta è arrivato in tavola leggermente freddo e scondito. “Ma il burro dov’è?” ho chiesto.
“Non c’è!”
“Come ‘non c’è!?’ Non fa cucina tradizionale questo ristorante?”
“Sì, ma il tortello i turisti lo vogliono senza burro!”
“Sì, ma io sono di Parma e voglio mangiare il tortello affogato nel burro e asciutto nel parmigiano! La regola è questa!”
Il ristoratore ha fatto un mezzo sorriso ironico, come se fossimo caduti dal pianeta Marte. “I turisti non vogliono il burro, mandano indietro il piatto se lo facciamo alla parmigiana!”
“Potreste almeno portare una terrina con del burro fuso caldo e molto formaggio, in modo da rendere un servizio più godibile e attento ai diversi clienti” ho sottolineato.
Il ristoratore ha sorriso di nuovo come se credessi ancora alle favole.
Ci siamo guardati in faccia delusi e abbiamo commentato in maniera molto colorita. “Il tortello scondito è un grave affronto alla tradizione parmigiana!” ho detto agli amici. Chissà perché in quel momento di sconforto ho pensato a mia madre quando bambino, per merenda, mi preparava la cosa più buona del mondo, pane, burro e zucchero, alla faccia del colesterolo, delle merendine e delle filosofie con o senza olio di palma e idiozie varie.”
E così ho fatto qualche riflessione in merito. Qui, dove si decanta tanto la cucina parmigiana, dove si dice ai quattro venti che a Parma si mangia bene, che la tradizione ha un suo valore soprattutto in cucina e siamo la capitale della “food valley” (un termine peraltro orrendo); qui, dove si fanno i festival del cibo, dove si cucina sotto i portici del grano, dove si invitano cuochi da ogni parte del mondo a feste e convegni, qui, dove abbiamo i migliori salumi del mondo, dove vengono i buyer di Cibus a mangiare, i primi a tradire la nostra cucina siamo proprio noi, servendo il tortello scondito perché ai turisti non piace. “E non siamo i soli. Provi a mangiare un tortello in città secondo tradizione!” mi ha risposto il ristoratore quasi in tono di sfida.
“Forse domani i nuovi parmigianicinesi friggeranno il tortello come le nuvolette di gamberi, lo ridurranno ad un antipastino” ho sottolineato.
“Fra qualche anno lo mangeremo accanto ad un cus cus magrebino” ha detto un altro più spiritoso di me. In fondo anche la cucina cambia, fa integrazione.
“Il turismo va bene, ma assecondare i gusti dei turisti è un bene o un male, tradendo così la tradizione?” ha sentenziato un altro, riaprendo la discussione. Il tema non è banale.
“Apriamo il dibattito!” ha urlato.
Ci siamo guardati in faccia allargando le braccia. “Ah, maledetto burro!” ha esclamato un amico con enfasi, alzando il pugno. L’unica certezza è che la prossima volta staremo lontani dal centro.  

Guido Conti