
Corpo, linguaggio e neuroni specchio:
bentornato a Parma, Condillac!
Qual è l’origine del linguaggio?
Q ual è l’origine del linguaggio? A questa domanda affascinante il filosofo illuminista Condillac rispose con un’ipotesi innovativa, coerente con la sua visione dell’uomo di stampo sensistico: il sistema di segni che ci permette, più o meno bene, di comprenderci o, spesso, di fraintenderci, discenderebbe da una specializzazione del tatto e dalla capacità di attribuire un valore semiotico ai gesti manuali e corporei.
A distanza di quasi due secoli e mezzo, il germe dell’ipotesi dell’abate Condillac ha trovato autorevoli sostenitori nell’equipe di neuroscienziati dell’università di Parma, scopritori dei neuroni mirror: in qualche modo, si tratta di un riscatto e di un ritorno nella città ducale dove il filosofo aveva vissuto per nove anni come precettore dell’infante, figlio di Luisa Elisabetta di Borbone e dove la sua opera aveva trovato, come a Parigi, detrattori e oppositori intenzionati a ostacolarne la libera diffusione.
Quando, nel 1758, ricevette l’invito per trasferirsi da Parigi a Parma, in veste di precettore del giovane erede del ducato Ferdinando di Borbone, il filosofo Étienne Bonnot de Condillac accettò volentieri l’incarico: la vita intellettuale a Parigi era diventata difficile dopo la pubblicazione, nel 1746, del “Saggio sull’origine delle conoscenze umane” e, soprattutto, del “Trattato delle sensazioni” del 1754. Su di lui e sulla sua antropologia sensista si andavano addensando le critiche delle autorità religiose e politiche: nonostante il filosofo avesse studiato dai gesuiti, nonostante fosse stato ordinato prete dopo un dottorato in teologia – ma pare che in tutta la vita abbia celebrato solo una messa – i sospetti presero presto la forma di aperte accuse di materialismo e ateismo. L’occasione era quindi propizia e andava colta. La madre di Ferdinando, Luisa Elisabetta, figlia del re di Francia Luigi XV, voleva per suo figlio il miglior maestro, capace di trasmettergli le innovative idee dell’Illuminismo, in modo che potesse diventare un uomo dalla mente libera da pregiudizi, ‘ni hypocrite, ni bigot’. Convocò quindi il filosofo autore dell’Essai sur l’origine des connaissances humaines. Ma l’educazione illuminata non riuscì a scongiurare i timori della madre: la figura di Ferdinando viene ricordata come quella di un governante debole e incline al bigottismo.
Condillac arrivò quindi, in veste di precettore, a Parma, e vi rimase nove anni: ma anche qui le idee inattuali del filosofo furono colpite da critiche e sospetti rivolti a impedirne una libera circolazione. Quando il suo allievo salì al potere, nel 1767, Condillac rientrò a Parigi e si dedicò a riunire in un Cours d’études gli insegnamenti che aveva impartito al giovane duca: l’opera venne stampata a Parma da Giambattista Bodoni nel 1775 ma non poté trovare diffusione poiché incontrò la ferma opposizione del vescovo della città ducale. La vendita dei volumi venne quindi impedita dalla corte di Spagna e l’edizione venne autorizzata solo nel 1782 a condizione che recasse l’indicazione di un luogo di edizione fittizio. La prima edizione italiana del Cours d’étude pour l’instruction du Prince de Parme, una cui copia è conservata nella biblioteca Palatina, potrà circolare solo dopo che Bodoni avrà cambiato il frontespizio, con l’indicazione dell’editore “Deux Ponts”, inesistente e quindi non rintracciabile da alcuna autorità civile o religiosa.
Tanto a Parigi quanto a Parma, la teoria dell’uomo e della conoscenza elaborata da Condillac che puntava a riportare all’unità il mondo spirituale dell’uomo (così come Newton aveva fatto con il mondo fisico), facendo derivare tutte le operazioni della mente dall’unica fonte della sensazione, appariva come un attacco portato verso l’idea di uomo come creatura di Dio, dotata di un’anima razionale e, per questo, differente dagli altri animali che, nella visone cartesiana, erano macchine senza anima. Nel sistema del filosofo francese, l’inseme delle facoltà dello spirito, anche le più alte, venivano interpretate come ‘sensazioni trasformate’ e trovavano la loro radice e condizione di possibilità nel corpo e nella sua capacità di sentire.
In questo quadro antimetafisico, il linguaggio nasce da quello che per Condillac è il ‘senso semiotico’ per eccellenza ossia dal tatto e dalla capacità dell’uomo di attribuire valore simbolico ai gesti.
Per evitare di incorrere nella censura ecclesiastica, consapevole del fatto che per la Chiesa il linguaggio doveva continuare ad essere considerato un dono di Dio e che, in principio, doveva continuare ad essere il Verbo e non certo il corpo, Condillac presentò la sua ipotesi sotto forma di fiaba: immaginò due bambini, un maschio e una femmina, persi in un deserto dopo il Diluvio Universale capaci di reiventare il linguaggio partendo da gesti, segni manuali e corporei, per poi passare, in un secondo momento, a un sistema di vocalizzazioni.
Ma se è a Parma che appare necessario fare ricorso allo stratagemma di un editore fittizio per poter far circolare in qualche modo le idee antimetafisiche del filosofo, è sempre a Parma che, circa 230 anni dopo, un gruppo di neuroscienziati ha riportato in auge la modernissima ipotesi condillachiana che l’origine del linguaggio debba essere rintracciata nei gesti, nella percezione e nell’azione.
Rispetto al tema affascinante dell’origine del linguaggio, due sono state nel tempo le possibili risposte: quella di un’origine vocale, in continuità con i suoni emessi dagli altri animali, fino allo sviluppo, grazie all’abbassamento della laringe, di un linguaggio articolato, e quella per la quale il linguaggio nascerebbe dai gesti, da una dimensione sensibile-percettiva, sfruttando principalmente il medium visivo mentre la parola risulterebbe essere una acquisizione successiva.
Lo scarto tra il macaco e l’uomo starebbe nella capacità simbolica del secondo.
Il gruppo di ricercatori dell’Università di Parma, coordinato da Giacomo Rizzolatti e di cui fa parte anche il neuroscienziato Vittorio Gallese, ha scoperto, negli anni Novanta, che nel cervello dei macachi sono presenti neuroni mirror che permettono un rispecchiamento tra la percezione di un gesto e l’azione: questi speciali neuroni si attivano sia quando la scimmia esegue un movimento intenzionale sia quando osserva un’altra scimmia compiere un gesto analogo. Lo stesso meccanismo di rispecchiamento è presente anche nell’uomo. I mirror neurons permettono quindi all’uomo di comprendere le azioni degli altri, assimilandole attraverso un processo di ‘mappatura’ ad azioni che egli stesso è in grado di compiere, in una sorta di simulazione interiore. L’elemento che ha portato i ricercatori di Parma a richiamarsi all’ipotesi condillachiana di un’origine gestuale del linguaggio è che i neuroni mirror sono stati scoperti nell’area F5 della corteccia dei macachi e nell’analoga area di Broca, negli umani, preposta all’articolazione ed alla comprensione del linguaggio e coinvolta in funzioni motorie complesse come la gestualità manuale: questa localizzazione dei neuroni mirror suggerisce che essi possano funzionare da ponte tra l’azione e la comunicazione, tra funzioni motorie e linguistiche.
Il linguaggio troverebbe quindi una sua originaria possibilità di sviluppo nella capacità di mimesi basata sul sistema di rispecchiamento neuronale grazie al quale gli ominidi hanno potuto instaurare una prima comunicazione imitando, con le mani e con espressioni del volto, le forme degli oggetti, i movimenti degli animali e le emozioni collegate alle loro diverse percezioni ed esperienze. Lo scarto tra il macaco e l’uomo starebbe nella capacità simbolica del secondo grazie alla quale l’imitazione ha potuto riferirsi anche a oggetti o situazioni distanti, non direttamente presenti all’atto della comunicazione fino a svincolarsi progressivamente dalla valenza iconica del gesto per arrivare a un sistema complesso di segni arbitrari.
L’esperimento mentale descritto da Condillac nel ‘Trattato delle sensazioni’, basato sulla metafora di una statua che si anima e conosce il mondo via via che riceve i diversi sensi, culmina nell’acquisizione del tatto, che già Diderot, tre anni prima, aveva indicato come il senso ‘più profondo e filosofico’: “Che cosa sarei io se, sempre concentrato in me stesso, non avessi mai saputo trasferire le mie maniere d’essere fuori di me?” si domanda Condillac nel Trattato. Dal momento che “il tatto istruisce gli altri miei sensi” prosegue il filosofo “tutti i giorni acquisto nuove conoscenze e ogni cosa che mi circonda diviene lo strumento della mia memoria, della mia immaginazione e di tutte le operazioni della mia anima.” E così, attraverso una sorta di anatomia dei sensi, Condillac arriva a tracciare una storia genetica del linguaggio che, secondo Guido De Ruggiero, “costituisce quanto di meglio abbia pensato il ‘700 francese su questa materia”.
Nel dialogo e nella collaborazione a distanza tra pensatori, è affascinante osservare come l’intuizione che un filosofo del Settecento aveva potuto presentare solo sotto forma di ipotesi attraverso metafore, favole ed esperimenti mentali, dopo due secoli e mezzo abbia trovato una nuova configurazione e una nuova possibilità di circolazione e di lettura grazie alle recenti acquisizioni delle neuroscienze, supportate da riscontri sperimentali basati su processi di neuroimaging che non erano a disposizione dell’abate Condillac il quale per cercare di individuare il terreno in cui affondano le radici del nostro linguaggio doveva fare ricorso solo alla propria capacità ideativa e immaginativa.
Lucia de Ioanna