
Non sei di Parma ma sembri “nostrano”.
Come il salame?
C’è una sottile coltre di diffidenza iniziale, un fumo del sospetto, che separa, a Parma, chi è della città da chi non lo è. Una distanza, un guardare come in tralice, in attesa di un passo falso, il nuovo arrivato: saprà andare per strada in bicicletta? Rispetterà la tabella settimanale di esposizione dei rifiuti? Farà sgocciolare i panni sul mio balcone? Perché insiste per offrirmi il caffè? Le spese condominiali, secondo voi, le paga?
Poi però, se chi viene da fuori si fa conoscere per come è, se riesce a fare emergere dalla nebbia della diffidenza i tratti del suo viso, allora un sovrappiù di entusiasmo e un’allegria di naufragio, scampato, si mostrano nel riconoscerlo come parte della comunità.
Ma a ben guardare, nell’angolo in ombra delle parole con cui lo si loda sta rannicchiato un tono concessivo: sempre si intravede un ‘nonostante’ che ci ricorda il sospetto originario, come un avvertimento.
Sul giornale raccontano di come “ha saputo farsi apprezzare” un certo pizzaiolo o o di come “ha saputo conquistare il cuore di tanti che lo hanno conosciuto” un venditore di fiori o lo studente arrivato in città da lontano. Certo non è scritto nero su bianco, ma tra le righe qualcosa si legge: l’ostacolo iniziale che l’estraneo ha dovuto superare e lo sforzo per compiere il balzo che lo colloca nel cerchio della fiducia stanno tutti interi dentro quel “ha saputo farsi apprezzare”.
Quando arrivai a Parma avevo otto anni. Dei napoletani si sentiva parlare spesso male e questo mi stupiva. Anche mia nonna non ne parlava troppo bene: mia madre non avrebbe dovuto sposarne uno e le cose sarebbero andate, forse, meglio. Moglie e buoi, si dice. Invece mia madre, che da Parma, sposandosi, era andata a vivere a Napoli, nella nuova città aveva trovato un clima di apertura, di accoglienza senza pregiudizio, di curiosità semmai per questa bella signora del nord: strinse profonde amicizie e nessuna inciampò in una concessiva pronta a farle lo sgambetto: “è una signora gentile e simpatica, una volta che si è lasciata conoscere. Nonostante sia di Parma.” No, niente di tutto questo.
Ce ne saranno di brave anche là.
Da bambina, trasferita a Parma dopo il terremoto di fine novembre dell’80, ma a causa in verità di un terremoto più privato, ero decisa a difendere la mia città di origine: molteplice e piena di salite e discese, di contraddizioni, è vero, ma anche di luce, cortesia, riti, una porosa leggerezza nelle relazioni attraversate da un’aria di umana simpatia tra persone di origine e di ceti diversi, senza distinzioni, e dolci buonissimi. Come poteva essere che, qui a Parma, tutto questo si riducesse a mariuoli e munnezza? E sempre, quando opponevo ai luoghi comuni il mio “ma Napoli non è così, non sono così i napoletani” l’amico o l’amica mi rispondeva qualcosa che avrebbe dovuto riscattarmi e gratificarmi, credevano loro, qualcosa di oscillante tra i due poli del “ma tu sei diversa” e del “lo so che ci sono anche quelli bravi, come te”. E io il ‘nonostante’ lo sentivo ringhiare lì sotto, accucciato, a guardia di quella nuova cortesia per gli ospiti, pronto a balzare fuori e mordere: sei brava, sì; nonostante tu sia di Napoli.
Poi mi sono sposata. E quando a mia suocera una conoscente chiese se io fossi ‘nostrana’, espressione che mi fece vedere me, per un istante, in forma di salame, lei rispose no, la futura nuora non era nostrana, metà e metà, ma insomma non proprio di Parma: di Napoli. E la conoscente, speranzosa: “ce ne saranno di brave anche là”. Ce ne saranno: una concessione, venata di dubbio.
Ho sposato, guarda il caso certe volte, un bambino che avevo conosciuto appena arrivata a Parma, nel palazzo dove viveva mia nonna e dove abbiamo abitato solo alcuni mesi.
In quei pochi mesi ci fu un episodio nuovissimo e allarmante per i condomini: un piromane diede fuoco alla pulsantiera dell’ascensore. I sospetti si addensarono cupi sulle teste dei tre bambini appena sbarcati da Napoli: mio fratello, mia sorella ed io.
Nostra nonna ci convocò per sapere quale di noi tre fosse il piromane. A sua parziale discolpa, posso dire che era a conoscenza di gesti di pirotecnia, risalenti al precedente periodo napoletano, rivolti verso i cumuli di munnezza, gesti ai quali ci aveva avviato nostro padre (ispirato, diceva lui, dall’opera di Vannoccio Biringuccio detto Lo scoppione, autore del De pirotechnia) costruendo rudimentali molotov che gettava dal balcone del terzo piano in via San Giacomo dei Capri, quando i cumuli verticali di immondizia, simili a rampicanti, arrivavano a lambire la ringhiera del balcone del primo piano. E questo, mi rendo conto, potrebbe rinsaldare pregiudizi nel lettore. Ma vi assicuro: nostro padre era l’unico seguace di Vannoccio Biringuccio, detto Lo scoppione, in un palazzo di due scale e sei piani, con portiere.
Fatto sta che noi non c’entravamo nulla con la pulsantiera liquefatta ma quelle nubi di sospetto non si dissolsero rapidamente. Di sicuro più lentamente delle nubi di diossina che si sprigionavano dai rifiuti, quelle sì, in qualche modo, da noi causate.
Ho saputo, anni dopo, chi era stato l’artefice del rogo della pulsantiera: un bambino biondocchiazzurrino che abitava sopra di noi, un insospettabile parmigiano doc, la cui porzione di cielo sopra il capo aureolato non era stata offuscata da alcuna nube, in quanto autenticamente ‘nostrano’.
Si tratta dello stesso che ho sposato? Questo lo lascio avvolto nel fumo o nella nebbia.
Nonostante tutto, ce ne saranno di bravi anche qui e non vorrei creare pregiudizi.
Lucia de Ioanna