Erba di casa mia: il Canapaio Ducale

Quattro chiacchiere in libertà con Luca Marola, pioniere parmigiano della cannabis (light e non)

È il 14 settembre 2002. Ore 15.30, Luca Marola e altri due soci aprono al pubblico le porte del Canapaio Ducale di Parma, il primo grow shop della città e nella First 20 a livello nazionale. La location scelta è quella di Piazzale Picelli (Oltretorrente), le certezze sono poche e le risorse a disposizione altrettanto.
«Il negozio era situato dall’altra parte della piazza, un buco di 16 metri quadrati in un angolo. Non avevamo idea di come la situazione potesse evolversi. Dopo due anni ci siamo trasferiti da questo lato e abbiamo raddoppiato la superficie espositiva. Nel 2017, infine, ci siamo stabiliti qui, negli spazi prima occupati da un’edicola: per ottimizzare i costi abbiamo mantenuto le insegne precedenti e cambiato soltanto sei lettere. Quelli della Gazzetta non l’hanno presa proprio benissimo…».

Nulla nasce per caso
Dal 2002 «è passata un’era geologica» e la situazione è radicalmente mutata: nel corso degli anni Marola è diventato un’istituzione nel mondo della cannabis, ha pubblicato diversi volumi sul tema ed è una presenza fissa alle più importanti fiere e convention, in virtù della sua preparazione ad ampio raggio (dal diritto al marketing, dalle nozioni farmaceutiche all’agronomia, dalla comunicazione alla geopolitica) e dell’autorevolezza che le campagne contro il proibizionismo gli hanno conferito.
Tra queste ultime, spiccano per rilevanza sociale e visibilità mediatica le annuali Feste parmigiane antiproibizioniste (organizzate dal Canapaio e svoltesi per un decennio a partire dal 2005): «Gli ingredienti principali erano dibattiti, concerti e pietanze tipiche. Sono nate come una sorta di ringraziamento nei confronti della nostra clientela e, anno dopo anno, sono diventate un appuntamento fisso per chiunque ruotasse intorno a questo mondo, fosse egli parmigiano o no».
L’importanza delle manifestazioni, oltre che dalla notevole affluenza di pubblico, è stata sancita nelle ultime edizioni dal patrocinio del Comune, emblematico riconoscimento istituzionale per un evento che non rientrava propriamente nei canoni della tradizione e che ha contribuito a mantenere accesa una disputa ancora oggi in atto.

modificare la percezione delle persone e i rapporti di forza sulla questione

Parola d’ordine: familiarizzazione
«Il nostro proposito è quello di modificare la percezione delle persone e i rapporti di forza sulla questione: dal 2014 la nostra posizione è sostenuta dai dati ufficiali sugli effetti della legalizzazione in altri Stati, ora abbiamo le prove che certificano la bontà della pianta di marijuana e spetta agli altri l’onere di trovare argomenti validi per confutare quest’evidenza».
Le vetrine del Canapaio sono lo specchio della sua anima attivista e di un intento divulgativo ben preciso: rendere la cannabis socialmente accettabile attraverso una policy aziendale finalizzata a garantire la massima trasparenza. Gli espositori mostrano, senza alcun filtro, tutto ciò che gli acquirenti possono trovare in vendita, dai bong in vetro («Ogni tanto qualche signora mi chiede a cosa servano quegli strani vasi») all’attrezzatura necessaria per la coltivazione domestica.
«In Italia i primi negozi specializzati sono stati aperti nelle grandi città, in strade laterali e poco visibili. Molti addirittura oscurano le vetrate per tutelare la privacy dei clienti, riprendendo la mentalità tipica dei sexy shop. La mia idea, invece, è stata quella di mettere in piazza l’attività che si svolge all’interno dell’esercizio, per non alimentare infondate dicerie e per permettere a chiunque di relazionarsi in maniera sana e produttiva con gli articoli in vendita».

l’esplosione della “tempesta perfetta”

La rivoluzione light
A tutto questo, nel maggio 2017, si è aggiunto il fenomeno Easyjoint: «In quel momento c’erano tutti gli elementi necessari per l’esplosione della “tempesta perfetta”. A fornirci maggior libertà d’azione è stata l’assenza, nella legge 242 sulla canapa industriale del dicembre 2016, del comma riguardante le infiorescenze. Abbiamo tratto ispirazione dal modello statunitense e ci siamo prefissati come obiettivo la creazione di un prodotto in grado di generare un surplus di risorse».
La cura del packaging e la visibilità fornita al prodotto dalle agenzie d’informazione hanno fatto il resto. «Siamo stati sommersi dalle richieste ancor prima della registrazione della società, in quei giorni al Canapaio l’attività era frenetica e sono stati numerosi, nei mesi successivi al lancio, i tentativi d’imitazione».
Quella venduta da Easyjoint è una cannabis light, con una percentuale di THC (il principio attivo psicotropo) inferiore allo 0,2% (come previsto dalla legge): «La sede legale del marchio è a Parma ma le nostre coltivazioni, prevalentemente outdoor, sono sparse in tutta Italia. Collaboriamo con tre aziende che si occupano di imbarattolare e inscatolare il prodotto, abbiamo creato nuovi posti di lavoro in un settore borderline come questo».
Qual è l’identikit dell’acquirente-tipo di questa canapa? Marola non ha dubbi a riguardo: «È una persona adulta, spesso sopra i 30 anni, consapevole della qualità certificata e dei benefici che potrà trarre dai nostri articoli. Non è sicuramente il ragazzino che si vuole sballare: per loro i mercati di riferimento sono altri, in strada e fuori dalla legalità».
La cannabis light, inoltre, è una sostanza d’uscita da altre dipendenze (come il tabagismo) e può rappresentare una valida alternativa, visti gli effetti rilassanti garantiti dagli alti tassi di CBD (un cannabinoide non psicoattivo), per chi vuole smettere definitivamente “di farsi le canne” con «erba non controllata dalle elevate percentuali di THC, di dubbia provenienza e pericolosa, poiché spesso adulterata con altre componenti chimiche».

la Corte Suprema ha vietato la vendita di qualsiasi derivato dalla coltivazione della marijuana…
…Questa sentenza non chiude la partita, anzi. La porta è spalancatissima

Fumata grigia
«Non ci resta che attendere il 30 maggio per avere una risposta certa»: congedandosi con queste parole, ormai due mesi fa, il titolare del Canapaio Ducale di Parma lasciava trapelare un cauto ottimismo circa la possibilità che gli articoli targati Easyjoint potessero ricevere una piena tutela giuridica.
Ieri la Cassazione si è finalmente espressa, pronunciando la sentenza definitiva sulla legalità della cannabis light e facendo chiarezza sulla liceità della sua commercializzazione.
Purtroppo non è arrivata la tanto attesa fumata bianca: la Corte Suprema, al contrario, ha vietato la vendita di qualsiasi derivato dalla coltivazione della marijuana (dall’olio alle foglie, passando per le infiorescenze e la resina), sostenendo che questi rientrino («salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante») nell’ambito d’applicazione del Testo unico sulle droghe (DPR 309/90) e non della legge sulla canapa industriale del 2016.
Il verdetto dei giudici è stato tutto fuorché definitivo, lasciando spazio a spiragli interpretativi in grado di rimescolare ulteriormente le carte. Ciò che è certo, tuttavia, è che la sentenza rischia di compromettere seriamente un settore economico (quasi 800 sono le imprese in Italia) che, negli ultimi anni, ha generato un giro d’affari milionario, registrato notevoli tassi di crescita e contribuito a creare migliaia di posti di lavoro.
In attesa delle motivazioni del giudizio della Cassazione, attese entro 90 giorni, Marola ha commentato per Open gli effetti che questo avrà nel futuro prossimo: «Il nostro mercato è partito come una disobbedienza civile. Ci siamo mossi dentro una legge non chiara per far capire cosa poteva succedere in Italia con la legalizzazione della canapa. Questa sentenza non chiude la partita, anzi. La porta è spalancatissima». 

Gabriele Abbondi