I Classici sono vivi e parlano… se si sa ascoltarli

La mia prima lezione di letteratura in seconda media quest’anno verteva sul concetto di classico. Nei loro occhi, il terrore: classici che non cambiano, classici che lo sono da secoli, classici che lo rimarranno per secoli. In un anno e mezzo di insegnamento ho capito un paio di cose sulla generazione dei miei alunni, una è questa: niente mette loro più ansia del vecchio (nel loro vocabolario, sistematica sostituzione per antico); niente li rende più diffidenti, distaccati, disinteressati di quando percepiscono che gli stai cercando di propinare una roba morta, inutile e inattuale. Lotto quotidianamente contro tutto ciò perché io, appunto, mi colloco da tutt’altra parte: adoro il vecchio, adoro il testo che si è mantenuto tale attraverso mille mani e sotto mille occhi, adoro pensare di lavorare per capire come fosse all’origine, adoro anche il fatto che sia una missione impossibile – alla filologia che mi ha formato voglio sempre molto bene. Quando ho dovuto iniziare Dante, ero io quella terrorizzata: se non fossero riusciti ad apprezzare Dante, mi sarebbe morto qualcosa dentro. Alla fine è andata così: sono passati tre mesi e io non ho ancora cambiato autore, perché nessun argomento li conquista come Dante – e vorrei dire che sono io a conquistarli, ma non è vero. È proprio Dante, da solo, letto ad alta voce, nel silenzio dei loro sguardi che si mangiano le sue immagini – le immagini che per magia si formano nell’aria appena dopo aver concluso una terzina – come se le avesse create ieri.
Ci sono però cose, in Dante, che non appaiono come se le avesse create ieri, e loro se ne sono accorti. Ma come mai vengono punite così duramente queste due persone che si amavano e basta? Ma che colpa ha Francesca se è stata costretta a sposare un uomo che non conosceva neanche, vecchio e sempre lontano? Ma mangiare tanto è ancora un peccato? Ma chi è di un’altra religione quindi finisce per forza all’Inferno?

Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. Non è detto che tutto quel che ha da dire sia sempre: avevo già capito tutto e voi dovete ascoltare. Potrebbe anche essere: non avevo capito tutto perché non potevo, non volevo o non sapevo. Il mondo in cui esistevo era un mondo diverso, e può essere che oggi le mie parole, oltre che splendide, possano risultare anche problematiche per qualcuno. E noi dobbiamo ascoltare ugualmente. Cosa significa ascoltare?
Per una buona parte di intellighenzia italiana, e non solo, ascoltare è fuori discussione. Letteralmente: nel senso che proprio non è contemplabile neanche discutere se convenga ascoltare o meno. Ci sono gesti, infatti, enormemente più semplici: gridare allo scandalo, manipolare il senso delle parole e delle espressioni (cancel culture: la regina delle manipolazioni linguistiche), suscitare un panico generalizzato e infondato – insomma, aprire la bocca e cominciare a farne uscire qualcosa, qualunque cosa, purchè faccia rumore, purchè faccia più rumore della loro paura. Ci ho messo un po’ ad arrivarci – e ci sono arrivata con l’aiuto di innumerevoli letture e (appunto) ascolti – ma ora mi è molto chiaro: è il terrore a guidare tutto questo. Non ci vorrete forse venire a raccontare che è l’amore per la cultura e per le vestigia del passato a farlo, vero? Non ci starete cercando di convincere che quello che vi sta a cuore veramente è la lingua di Dante, l’eredità di Omero, il genio di Mozart? Io, che all’Ara Pacis ci metterei le tende e per un Museo Archeologico salto volentieri il pranzo, non ci credo nemmeno per un secondo. Forse, avvalendovi dell’espressione retorica del giorno, pronta all’uso e stantia come una minestra riscaldata cento volte, ve la potete continuare a raccontare tra voi; forse siete ancora in grado di risultare persuasivi gli uni con gli altri, quando affermate che il problema con lo lo schwa e con gli asterischi è che sono una vera disgrazia per la bellezza della lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio. Ma la verità è che ormai in tanti non vi crediamo più: il velo è strappato. E i numi tutelari che chiamate in causa a piacimento, come monumenti immobili privi di vita, tutt’altro erano che immobili, e tutt’altro facevano che preservare una lingua, una cultura: le prendevano e le disfacevano, le reinventavano, le adeguavano a nuove realtà, le trasgredivano.

Dante scrive e l’italiano lo inventa

Dante scrive e l’italiano lo inventa: seguire il suo modello non è venerare la sua tomba, ma continuare a inventare. Il fatto è che continuare a inventare significa prendere in considerazione qualcuno che prima non c’era. O meglio, non è che non ci fosse: parafrasando le parole di Claudia Durastanti in un bellissimo articolo su Internazionale, non era invitato alla festa. Quindi, agli occhi degli invitati, non c’era; ed era una gran bella festa, con un sacco di spazio e zero problemi. Ora la stanza è piena, e bisogna stringersi: improvvisamente nuove orecchie ascoltano Dante e Mozart e ci dicono com’è ascoltarli per loro, nuovi piedi camminano vicino a una certa statua e ci dicono com’è vederla ogni giorno per loro, nuove menti pensano Biancaneve e ci dicono come sembra a loro. Fare spazio è molto faticoso e fa molta paura; allora, però, “forse più che di censura si deve parlare di questo: dell’aggressività gioiosa del nuovo arrivato rispetto all’imbarazzo di chi a quella festa c’è sempre andato”. Forse, più che di politicamente corretto, si deve parlare di questo: di quanto è difficile spostarsi un attimo dal proprio posto, guardarsi da fuori e vedere dove si è e cosa ha comportato. Forse, se proprio vogliamo parlare di Dante, di lingua italiana, di tradizione, di cultura, dobbiamo parlarne davvero: guardandoci dentro e scoprendo cos’è che ancora può dirci – tanto, tantissimo – e cosa invece può essere rimesso in gioco, in discussione, e da lì ripartire. Altrimenti, cultura significa soltanto stare a galla. E allora, “piuttosto che una reminiscenza così inerte del passato”, come scriveva Nietzsche in Noi filologi, “meglio un’esistenza da bracciante”..  

Marta Pedretti