
Il cinema ai giorni nostri: declino di un gigante?
Crisi e potenzialità di un settore in rivoluzione
Con la chiusura delle sale cinematografiche in pochi mesi lo streaming è diventato il mezzo principale per vedere i film
Stiamo assistendo – e allo stesso tempo contribuendo – a una rivoluzione culturale senza precedenti, la quale va a innescare a sua volta una profonda crisi identitaria nel mezzo di espressione che ha segnato la storia del Novecento: il cinema. Non si tratta perciò di difficoltà legate alla sfera produttiva o distributiva in particolare, quanto piuttosto di riflessioni che interrogano la natura e la definizione stessa di “cinema” in rapporto a quelle che sono le evoluzioni tecnologiche che ne alterano la struttura.
Viene dunque meno – soprattutto negli ultimi anni con l’avvento di servizi on demand quali Netflix e Prime Video – quell’idea di cinema innanzitutto inteso come spazio fisico destinato alla visione collettiva di un film, e garante dell’irripetibilità dell’esperienza percettiva ed emotiva del singolo individuo. Senza considerare inoltre che un tale fenomeno rischia di essere esasperato dall’attuale emergenza sanitaria. Qual è il prezzo da pagare di fronte a una situazione di così evidente criticità? Che cosa è stato fatto (o si sta facendo) a livello territoriale per arginarne le conseguenze? Anzi, è forse possibile arginarne le conseguenze? Quali sono invece le ripercussioni sul più ampio concetto di cultura?
È a partire da queste considerazioni che ho cercato quindi di approfondire un argomento così ampio e delicato. Nello specifico ho deciso di porre alcune domande sul tema dapprima a Michele Guerra – docente di Storia e Critica del Cinema all’Università di Parma e Assessore alla Cultura della città – e successivamente a Primo Giroldini, direttore del Parma Film Festival.
MICHELE GUERRA
Andare al cinema costituisce da sempre un fatto culturale e attitudinale consolidato: comporta azioni precise, scelte, appuntamenti, volontà di vivere la socialità. Questi modi di pensare e di agire rischiano forse di essere messi in discussione, e in un certo senso superati, dalle crescenti opportunità offerte dal web e dalle tecnologie digitali? È giusto parlare in tal senso di “rivoluzione culturale”?
Partiamo da questo presupposto: l’aspetto relazionale, comunitario, d’incontro che il cinema ha sempre proposto fin dalla sua nascita adesso è effettivamente colpito al cuore. Questo è dovuto al fatto che non possiamo recarci in sala e, quindi, si perde tutta quella condizione di confronto che la sala metteva in campo e che attualmente non c’è più. Per capire cosa significa vedere un film in sala basterebbe rileggere il bellissimo testo che Roland Barthes scrive sull’uscire dalla sala – En sortant du cinéma – e purtroppo oggi ciò che è messo in discussione è proprio questa preziosa esperienza.
Che cosa succede nel dettaglio? Succede che il prodotto film è trasportabile altrove: posso avere quindi un’esperienza cinematografica anche lontano dalla sala stessa. Questo è un tema che la teoria del cinema tratta da moltissimi anni. Francesco Casetti, in particolare, lo ha fatto benissimo nel suo libro La galassia Lumière. Si tratta di un processo che il Covid ha accelerato. La riflessione che siamo chiamati a fare è: posso dire di vivere un’esperienza cinematografica anche fuori dalla sala? Ovvero anche nel momento in cui il film incomincia a viaggiare su piattaforme web, a migrare sui nostri computer, sui nostri tablet oppure su degli impianti molto sofisticati (come le televisioni domestiche con tanto di surround, ecc.)? Posso dire nello specifico che l’esperienza cinematografica è ancora viva? Beh, la risposta è sì. Perché è evidente che il cinema, dal momento in cui è nato, si è sempre adattato alle tecnologie. Quel che nessuno pensava era che in così pochi mesi saremmo potuti arrivare ad una tale accelerazione che comporta una vera e propria mutazione antropologica e che rischia di marginalizzare le sale.
La sua domanda presuppone quindi due strade: se da un lato ci chiediamo se l’esperienza cinematografica è persa, la risposta è no perché in realtà noi continuiamo ad averla anche su altri dispositivi. Se ci chiediamo invece se l’esperienza della sala è persa, dobbiamo invece dire che è molto a rischio. Io rimango convinto, come altri, che l’esperienza della sala sia una parte irrinunciabile della condizione cinematografica: pensare di perderla significa rischiare di dover assistere ad una rivoluzione che ci obbligherà a raccontare ai nostri figli che c’era un tempo in cui si usciva di casa per andare al cinema, per vedere i film in ambienti costruiti appositamente per quell’utilizzo. Ecco, speriamo che questo non accada.
Sono sicuro che, quando le sale riapriranno, se i loro esercenti saranno delle persone preparate e capaci di capire il cinema e di proporre un’offerta intelligente, la gente in sala tornerà, con molta voglia e convinzione. Questo perché le piattaforme sono piene di titoli, ma non hanno sempre una capacità programmatoria come quella che certe sale hanno o hanno avuto.
Stiamo dunque assistendo a un’effettiva smaterializzazione dell’esperienza cinematografica?
Non proprio. Stiamo assistendo a quella che è un’individualizzazione dell’esperienza cinematografica, più che a una sua smaterializzazione. Perché il film, per quanto dotato ovviamente di una sua materialità, è sempre stato una proiezione di ombre sullo schermo e quindi un po’ smaterializzato lo è sempre stato. Ma era un’esperienza comunitaria. Adesso si sta individualizzando moltissimo e ci troviamo di fronte ad una nuova generazione che, oltre ad essere abituata a guardare i film principalmente sul suo computer o su un qualsiasi altro dispositivo portatile (quindi su uno schermo ridotto), vive da sola la relazione col film. E le esperienze individualizzate, quelle che fanno a meno del concetto di “comunità”, sono delle esperienze diverse e, secondo me, impoverenti rispetto a quelle che si possono fare collettivamente.
Quindi, nella condizione attuale, il cinema è sempre più marginalizzato?
Il cinema nel suo complesso no. Io credo che il rischio di marginalizzazione lo abbia la sala. Il cinema è evidente che non è più, al giorno d’oggi, quello che è stato fino al secolo scorso. Perché nel XX secolo il cinema è stato sicuramente il medium più forte dal punto di vista di costruzione dell’immaginario e di trasversalità rispetto alle fasce di spettatori. Io penso che se si dovesse identificare un medium che, da un punto di vista simbolico e filosofico, rappresenti il Novecento, quel medium non potrebbe essere che il cinema. È evidente che negli anni Duemila le cose sono cambiate e il medium che modella il nostro comportamento e il nostro immaginario è il web.
Detto questo io non credo che quella del cinema sia un’esperienza marginalizzata, perché altrimenti tutte queste piattaforme che noi attraversiamo ogni giorno – da Netflix ad Amazon Prime, da Disney Plus a TimVision – non continuerebbero a ottenere i risultati che invece ottengono. Dunque il cinema e il prodotto film non sono di per sé marginalizzati e io vi includo anche la serialità televisiva che io vedo come una delle nuove frontiere del racconto cinematografico.
Ripeto, il cinema non è marginalizzato. Quella che rischia piuttosto, all’interno di un’offerta così intensa, di essere marginalizzata è invece la domanda della sala. Per cui si potrebbe correre il pericolo, ad un certo punto, di non essere più in grado di costruire una domanda verso la sala cinematografica. Questo accade per ragioni di vario tipo: innanzitutto di comodità e di offerta (perché magari sulle piattaforme si trovano le cose che incontrano l’interesse del pubblico più largo: la serialità televisiva ad esempio non passa in sala). Non meno rilevante è il tema economico: è evidente che io oggi pago tre mesi di Netflix come due o tre biglietti in sala. Questo comporta delle scelte che quando andiamo a immaginare lo spettatore medio dobbiamo prendere in considerazione.
Si rischia insomma un indebolimento del cinema per come lo abbiamo sempre inteso, cioè in sala. Questo è un dato che, tra l’altro, gli studi sulla fruizione cinematografica confermano da molto tempo: la sala era in crisi anche prima del Covid. La pandemia le sta solo dando un colpo abbastanza preoccupante.
Come se non bastasse, complice la pandemia da Covid-19, le saracinesche dei cinema si sono tristemente abbassate da circa un anno.
Un dato rilevante balza subito all’occhio: nel 2020 si sono registrati circa il 93% in meno di incassi e di presenze rispetto al 2019. Quali iniziative sono state proposte, con particolare riferimento alla realtà locale, per provare ad arginare una situazione di tale incertezza economica? Come possiamo risollevare le sorti di un settore in forte difficoltà?
Finché c’è chiusura, c’è poco da fare purtroppo. Se le ordinanze che arrivano a livello governativo dicono «tenete chiuso», è chiaro che diviene molto difficile anche per il pubblico aiutare le sale. Per quello che riguarda la politica (intesa in tutte le sue articolazioni: statale, regionale, comunale), è chiaro che la prima cosa che può fare – e fa – è cercare di mettere in campo dei ristori economici. Cercare di essere in qualche modo vicino alle sale cinematografiche, sgravandole di alcuni costi oppure continuando a versare del denaro che possa permettere a quelle realtà, seppur chiuse, di non morire ma soprattutto di poter riaprire.
Noi abbiamo vissuto una tragedia che ha visto tener chiusi i cinema, i teatri, le sale da concerto per tantissimi mesi. Con la differenza che, mentre dentro ai teatri o alle fondazioni musicali si poteva per lo meno ritrovarsi, lavorare, cercare di portare avanti alcune azioni anche senza che il pubblico entrasse effettivamente in sala, i cinema non hanno potuto fare nulla di tutto questo in quanto il cinema rappresenta una forma di trasmissione dei contenuti completamente differente da quelle appena citate. È evidente che il teatro poteva fare attività in streaming, così come potevano farlo le realtà musicali. Il cinema, che ha provato a sua volta a fare questo, si è affidato a piattaforme che sono state attivate per portare e proporre i film in streaming, non riuscendo a mantenere lo stesso rapporto col suo pubblico.
A Parma abbiamo avuto l’importante apertura delle arene estive, che pur nella diminuzione del pubblico e del consumo di film hanno funzionato. Ci sono stati film, da questo punto di vista, che hanno addirittura registrato il tutto esaurito in alcune serate. I posti erano naturalmente più limitati. Tuttavia in alcuni casi le persone hanno disertato anche la sala aperta, perché è evidente che c’è un po’ di timore in questa fase e quindi la forma di resistenza che le arene estive hanno offerto non è stata sicuramente sufficiente a risanare quella che è la crisi sistemica del comparto.
Che cosa significa fare cultura in un periodo così difficile? Soprattutto in una città come Parma, Capitale della Cultura 2020/2021?
Si tratta semplicemente di ripensare davvero all’idea che si aveva di “cultura”. È una sfida difficilissima, anzi enorme, che però stiamo cercando di affrontare. Io credo che i dati che stiamo raccogliendo come Parma Capitale italiana della Cultura, tra le attività in presenza e quelle in streaming, in questo strano matching che esiste tra ciò che si poteva fare una volta e ciò che abbiamo dovuto trasformare, siano dati molto interessanti perché ci consegnano uno spaccato piuttosto attendibile di come sta cambiando il comparto culturale in tutte le sue espressioni. Senza dubbio si tratta di un cambiamento traumatico. Non sappiamo neanche se sarà un cambiamento positivo. Noi teniamo comunque costantemente aperti i tavoli di confronto con il sistema teatrale, con quello musicale, con quello cinematografico, con le realtà museali, con le realtà che lavorano nel campo delle esposizioni e dei concerti, con le associazioni culturali, perché dobbiamo tenere il in tensione i fili di un discorso che non si può interrompere, cercando a piccoli passi non solo di tamponare, ma anche di proporre cose nuove. Questo è lo sforzo che stiamo facendo. Naturalmente la spinta sarà diversa nel momento in cui sarà possibile riaprire, quando la campagna vaccinale sarà arrivata ad un livello soddisfacente, quando sarà possibile riprendere a muoversi con un po’ più di sicurezza.
Non ritroveremo la cultura di prima. Non dobbiamo pensare che quando saremo tutti vaccinati ripartiremo da dove eravamo. Saremo infatti chiamati a ripensarla e dovremo farci trovare pronti in questi mesi. Quindi lo sforzo che stiamo facendo noi e tutte le città italiane è quello di capire come ripensare il concetto di “cultura”. Parma, forse, parte con un po’ di vantaggio perché disgraziatamente l’emergenza sanitaria è capitata in un momento di enorme produttività culturale della città. Se pensiamo a cosa avrebbe potuto significare Capitale della Cultura per Parma, ovviamente vengono i brividi: avremmo avuto un anno di grande forza culturale, di importanti presenze, di ospiti, di condivisione, di dialogo, di confronto a tutti i livelli che purtroppo, per forza di cose, non abbiamo potuto sperimentare. Rimane il metodo, che non andrà e non è disperso.
Cosa ne pensa delle iniziative proposte in streaming dalle sale d’essai cittadine?
Queste piattaforme hanno permesso di sentirsi collegati alla propria sala cinematografica di riferimento. È la sala stessa che mi propone il film e quindi in un certo senso si replica, nell’idea di fidelizzazione del pubblico, l’antico rapporto che ci portava in quella sala perché ci fidavamo della sua programmazione. Certo, la relazione è più fragile: ognuno si collega a una piattaforma e si comporta esattamente come in altri casi di streaming, con la differenza che c’è un sistema economico che ricade anche sulla sala.
La penso come Andrea Occhipinti: non buttiamo via streaming e piattaforme perché anche al momento del ritorno in sala rimarranno canali utili al potenziamento e alla differenziazione dell’offerta cinematografica.
In ogni comparto culturale, come direi in ogni comparto in generale, ci vuole in questo momento molto coraggio e molto sangue freddo. Quando sei in mezzo alla tempesta e devi prendere delle decisioni, la posizione è meno comoda rispetto a quella che avresti assunto osservando la situazione da lontano. E quando dico questa cosa penso soprattutto agli operatori culturali, che in mezzo a quella tempesta purtroppo ci sono in maniera così forte da troppi mesi.
PRIMO GIROLDINI
La settima arte già in passato ha dovuto fare i conti con degli stravolgimenti che hanno coinvolto la struttura compositiva e narrativa delle pellicole. Penso ad esempio all’introduzione del sonoro (nel 1927) e a quella successiva del colore (dal 1932). Ma mi riferisco anche a tutte quelle implementazioni tecniche che hanno progressivamente reso il cinema un medium unico nel suo genere e un punto di riferimento per intere generazioni. Tuttavia tale unicità è messa oggi in costante discussione e il cinema viene sempre più marginalizzato. Quali sono le origini di tale fenomeno? Quali sono invece le sue ripercussioni?
Spesso, in passato, il cinema è stato messo in discussione dal progresso tecnologico. Il primo passaggio sicuramente traumatico fu quello dal muto al sonoro. Io sono dell’idea che l’avvento del sonoro fu fin troppo prematuro. Sulla narrazione per sole immagini si poteva e si doveva sperimentare maggiormente. Con l’avvento del sonoro il cinema diventa improvvisamente più statico e più teatrale. I primi film sonori sono piuttosto brutti per questo uso della parola che diviene prevalente rispetto all’immagine. Invece l’introduzione del colore fu meno traumatica in quanto inevitabile: già agli esordi del cinema ci furono alcune sperimentazioni sul colore piuttosto interessanti. Un terzo sconvolgimento estremamente significativo fu quello dell’avvento della televisione, per cui possiamo dire che il cinema rischiò di entrare pesantemente in crisi. Qui in Italia ne abbiamo avvertito le ripercussioni a quindici o vent’anni di distanza. Ma negli Stati Uniti – che era il maggior produttore cinematografico mondiale – l’avvento della televisione, alla fine degli anni quaranta, comportò una profonda crisi produttiva. Una crisi alla quale il cinema fortunatamente rispose con nuove idee e con tecniche innovative (mi riferisco al cinema underground o alla Nuova Hollywood) riuscendo così, almeno in parte, ad arginare un potenziale disastro.
Oggi stiamo vivendo una nuova rivoluzione rappresentata dall’avvento del digitale. Ma è soprattutto la sala a risentire di un effetto di marginalizzazione. Quale pubblico assiste ancora a delle proiezioni cinematografiche? Parliamo di spettatori sempre meno giovani, con un’età media sopra i cinquant’anni, con un’abitudine consolidata alla fruizione cinematografica in sala. I più giovani invece si riversano sulle piattaforme, si schierano a favore di un mezzo più leggero fruito attraverso TV, personal computer, tablet o addirittura smartphones. Si tratta di un fenomeno irreversibile che è in corso e che l’attuale emergenza sanitaria tende purtroppo ad accelerare.
L’esperienza visiva della sala è dunque sostituita da una forma di fruizione casalinga in cui io trovo che a prevalere sia la presenza di un pubblico non particolarmente esigente. Cambiano senza dubbio le modalità di riproduzione dell’immagine cinematografica stessa. Il fatto di poter sospendere la visione di un film – ad esempio per controllare le notifiche sul cellulare o per andare magari a mangiare qualcosa in cucina – e poi riprenderla in un momento successivo, ecco posso dire liberamente che mi urta e non poco. Come se non bastasse le dimensioni di uno schermo televisivo, di un monitor o di un cellulare incidono in maniera considerevole sulla qualità dei dettagli e dei particolari. Non mi permettono di comprendere a pieno la qualità della fotografia. Purtroppo – essendo anziano dal punto di vista della fruizione cinematografica – sono abituato a una visione sul grande schermo e all’atmosfera avvolgente di una sala tradizionale. Sono nato e cresciuto nelle sale cinematografiche e lì, senza alcun dubbio, ho visto i film più belli della mia vita.
Quello che più mi manca è condividere la visione di un film con altre persone: un elemento fondamentale che la visione privata/casalinga non consente. Questa a mio avviso è la più grande perdita. Però è proprio questo aspetto dell’evento sociale, ovvero il potersi ritrovare in una sala scegliendo in tanti di vedere lo stesso film, per il quale ci si può commuovere, si può ridere, si può piangere forse sarà uno degli aspetti che impedirà la morte definitiva della sala tradizionale.
Devo tuttavia riconoscere che queste piattaforme con cui possiamo entrare in contatto quotidianamente stanno avendo, almeno in questo periodo, una grande funzione: quella di non far morire i film. Perché altrimenti questi film dove li avremmo visti? Sarà pure una cattiva visione, sarà pure una brutta fruizione, però almeno queste pellicole hanno la possibilità di circolare e di essere viste.
Si assiste quindi a una certa orizzontalità del panorama informativo, soprattutto all’interno di queste piattaforme.
Il panorama informativo, oltre ad essere orizzontale, è anche omologato. Il che è ancora peggio. All’interno di questi meccanismi c’è un’omologazione di comportamenti e di gusti senza precedenti. Uno dei danni peggiori a cui potremmo andare incontro. Però ripongo ancora una speranza nell’idea dell’evento sociale. L’essere umano, essendo per natura un animale sociale, avrà ancora bisogno di confrontarsi con i propri simili, di scambiare un’opinione. Io sono nato e cresciuto, da un punto di vista cinematografico, in un’epoca in cui proliferavano i cineclub. Ricordo i dibattiti dopo il film, ricordo i capannelli di persone che fino alle due di notte si ritrovavano di fronte alla sala a discutere del film appena visto. Erano esperienze straordinarie di scambio e di confronto alla cui origine c’era l’idea della scelta: mi vesto, esco di casa e vado in una sala per vedere “quel” film. Oggi tutto questo mi sembra essere messo costantemente in discussione. Non voglio comunque essere pessimista fino in fondo: ritengo che queste situazioni di socialità riusciranno comunque a resistere.
Come ha detto lei stesso poco fa, la pandemia da Covid-19 rischia di mettere a forte rischio un settore già in evidente difficoltà. Ecco, ragionando in questi termini, cosa è cambiato rispetto al recente passato?
Il fenomeno del cinema in sala – e in particolar modo quello di una certa qualità veicolato dalle sale mono schermo e dalle sale d’essai – era già in grossa crisi: i numeri impietosi sono davanti agli occhi di tutti. Questi dati dimostrano una riduzione degli spettatori piuttosto considerevole negli ultimi vent’anni. Tenevano più che altro le multisale con prodotti estremamente commerciali. Prova ne sia che a livello di amministrazioni locali, di enti come le Regioni e lo Stato già da anni sono state intraprese iniziative di sostegno e di valorizzazione delle sale d’essai/mono schermo con premi, con incentivi, con una serie di iniziative che avevano in un certo senso fatto reggere il colpo.
Noi stessi del Festival, tre anni fa, quando abbiamo allargato le varie collaborazioni, abbiamo preso come punto di riferimento – relativamente a un discorso di aumento di interesse – le tre sale d’essai cittadine (Astra, D’Azeglio e Edison) proprio come scelta di valorizzazione e di sostegno di questi spazi poiché giocano un ruolo significativo dal punto di vista non solo culturale ma anche sociale. Mi riferisco nello specifico a certi quartieri periferici in cui la sala è l’unico luogo di aggregazione per una comunità. Si pensa giustamente alle biblioteche o ad altri spazi di interesse, ma il cinema è uno di quei luoghi in cui tutti possono ritrovarsi, confrontarsi e operare delle scelte culturali.
In mezzo a questa pandemia chiaramente sono state intraprese alcune misure di ristoro e di sostegno che però potrebbero rivelarsi insufficienti. Io sono convinto che parecchie sale dopo quest’anno non riusciranno a riaprire: versano in enormi difficoltà e questa situazione la stanno pagando duramente. Resisteranno le sale grandi, le multisale e quelle che sono dotate di una copertura o di un sostegno economico piuttosto significativo alle spalle.
Riflettevo in questi giorni su un dato incredibile se solamente immaginato qualche anno fa. Siamo i primi, dalla nascita del cinema e dalle prime proiezioni pubbliche, che hanno avuto le sale cinematografiche chiuse. Sia durante la Prima guerra mondiale e sia durante la Seconda, i cinema nonostante tutto sono rimasti aperti. Addirittura funzionavano sotto i bombardamenti aerei. Per la prima volta nella nostra storia i cinema sono rimasti chiusi, e questo a causa di una pandemia.
Nonostante l’emergenza sanitaria il Parma Film Festival non si è fermato. Anzi, piuttosto è stato in grado di rinnovarsi, proponendosi in versione digitale. Come è andata nel complesso la ventitreesima edizione? Il pubblico come si è comportato: ha dimostrato sostegno e calore?
Anche quest’anno abbiamo lavorato, fino all’ultimo, nell’intento di organizzare il Festival in presenza, ma ci siamo ritrovati purtroppo nella condizione di non poterlo fare. L’unica soluzione era rappresentata dal proporre il Festival in una versione tutta nuova, in digital. Nelle sette giornate di attività su Facebook e su Zoom abbiamo raggiunto circa sessantacinquemila mila contatti. Questo ci suggerisce degli spunti interessanti su cui ragionare in vista dell’edizione 2021, a cui tra l’altro stiamo già iniziando a lavorare. Il nostro obiettivo primario ovviamente è quello di ritornare a proporre il Festival in presenza. Però stiamo anche prendendo in considerazione l’ipotesi di organizzare una parte di questi eventi in streaming. Proponendo una soluzione ibrida, sospesa tra presenza e remoto, che sia un compromesso tra le due soluzioni.
Metaforicamente parlando, prendendo a prestito i capolavori di Sergio Leone, potremmo infine riferirci alla situazione attuale con l’espressione “C’era una volta il cinema”? Oppure suona meglio, riferendoci a Victor Hugo, l’espressione “il futuro è una porta, il passato è la chiave”?
La frase di Victor Hugo l’ho pubblicata qualche giorno fa su Facebook (ride). Credo che sia la più adatta in quanto più foriera di possibilità e di speranza. Bisogna continuare a pensare positivo. È evidente tuttavia che i numeri che abbiamo avuto, in termini di biglietti venduti, a metà degli anni ’70 (circa 500 mln di biglietti) – ma ripensando anche ai 110 mln di biglietti venduti fino a qualche anno fa – molto difficilmente torneremo a raggiungerli. Sono fortemente convinto, nonostante tutto, che il cinema in sala non morirà: penso che sia una forma di spettacolo unica, sia un modo di stare insieme talmente bello, talmente forte che non può e non deve assolutamente finire.
Ritengo che l’espressione “C’era una volta il cinema” non possa descrivere la situazione in cui siamo coinvolti. Suonerebbe forse meglio “C’era una volta il cinema di un certo tipo” con particolare riferimento alla qualità artistica del prodotto-film. Sono convinto che oggi, nella scena internazionale, ci siano dei registi importanti, che realizzano film significativi. Però il grande cinema, quello che si è elevato a forma d’arte, ha già dato il meglio di sé. Ed è in questo senso che allora sarebbe giusto parafrasare Leone.
Spero infine con tutto me stesso che la forma della proiezione in sala, della fruizione per un grande pubblico rimanga, e che torneremo a vederci i film tutti insieme.
Gianmarco Maenza