
Il Festival del Buco. O abbasso gli intellettuali
La cultura evento ha ucciso la pratica culturale e la pubblica discussione
Da un festival all’altro. Della mobilità, del turismo sostenibile, insolito, della parola, del pensiero ribelle. Manca solo il Festival del Buco e non è una battuta ma un auspicio, parafrasando Majakowskij: che si faccia un festival in cui non ci sia niente e la smania festivaliera cessi. Per un po’ almeno. Visto che lunga è la lista di convegni, conferenze, presentazioni di libri, palchi allestiti in piazza e teatri montati in strada, gallerie d’arte che offrono aperitivi e bar che viceversa allestiscono mostre fotografiche, concerti plein air e maratone poetiche, corsi di yoga in Galleria e conferenze nei caseifici. Insomma di consumi culturali c’è estrema abbondanza. Tanta che non c’è – pur essendo assolutamente necessario- un calendario che almeno eviti doppioni e sovrapposizioni.
Il problema ormai drammatico è che la cultura a Parma, come in tutt’Italia, sopravvive solo in questa dimensione. Come spettacolo, fruizione onnivora, consumo. Per fare un paragone è come se uno facesse sport solo guardandolo alla televisione o andando allo stadio, cioè come spettatore, ma non praticasse alcuna disciplina sportiva. Cosa voglio dire, posto che leggere un libro, andare a teatro o a una conferenza, visitare una mostra fa sempre bene al corpo ed eleva lo spirito? Che la pratica culturale intesa come partecipazione personale e attiva a pubbliche discussioni e confronti, non ha quasi più modo di esprimersi, non avendo più, peraltro, luoghi fisici deputati. Per incontrarsi o ritrovarsi fra intellettuali – uso la parola che oggi è disdegnata, quasi fosse una colpa o un ‘offesa – ci si deve telefonare, darsi appuntamento. Perché, appunto, non esistono più luoghi e occasioni di incontri collettivi e informali, di ritrovo affidato al caso ma abitualmente frequentati. Come avveniva nei caffè e bar del centro citta, su cui ritornerò.
Per incontrarsi o ritrovarsi fra intellettuali ci si deve telefonare, darsi appuntamento.
Recentemente ha fatto scalpore Guido Barilla che la lamentato la “decadenza culturale” di Parma. Ma questa denuncia, un po’ estemporanea, non ha trovato eco e alcuno che abbia abbozzato un’analisi. Insomma il j’accuse di uno dei promotori di “Parma io ci sto” è caduto nel vuoto. Ed è proprio da questo vuoto che vorrei partire dicendo che esso è civico in primo luogo, perché se la poliso per meglio dire la politica dovrebbe essere il contenuto principale del dibattito pubblico cittadino di entrambi non vi è quasi più traccia. Tale vuoto, tuttavia, non può essere imputato a questa amministrazione e nemmeno a quelle precedenti di Vignali e Ubaldi e perfino di Lavagetto. La politica intesa come partecipazione è infatti morta da un pezzo. Per ritrovare una città partecipe e coinvolta nelle scelte amministrative e di governo locale bisogna risalire agli anni ’80. A quando esisteva ancora il PCI, che aveva più d’una sezione in ogni quartiere, ma anche dentro i luoghi di lavoro (fabbriche e amministrazioni pubbliche); e sezioni avevano pure Dc e Psi , oltre a una federazione provinciale, allo stesso modo del partito Repubblicano, del MSI e di altri più piccoli partiti e movimenti come il Pdup o i Radicali. Questo tessuto associativo complessivamente (cfr Storia e Futuro– Rivista di storia e storiografia online n.34/febbraio 2014) mobilitava quasi 15mila attivisti (solo il Pci nel 1980 aveva 9.000 tesserati in città e più di 21mila in provincia), che a loro volta, per il tramite dei familiari e degli amici più stretti formavano una comunità cittadina piuttosto numerosa. Che era quantomeno informata dei fatti e che sia pure a diversi livelli partecipava alle decisioni. Certo era una partecipazione spesso pletorica, dove relativamente pochi (i dirigenti) decidevano e la maggioranza prendeva atto. Tuttavia nelle sezioni e sedi di partito ci si ritrovava e si discuteva di come recuperare il complesso di San Paolo oppure sistemare Piazzale della Pace (giusto per riprendere due temi che una volta, soprattutto il secondo, suscitavano furori e assemblee infuocate e ora invece sembra che importino a nessuno).
Tutti i partiti poi, massimamente il partito comunista, organizzavano feste estive, dedicate ai loro giornali (l’Unità, l’Avanti!) o comunque all’autofinanziamento (la Festa dell’Amicizia democristiana) e in queste feste i dibattiti culturali e sulle questioni politiche del momento erano il viatico obbligato delle successive attività piacevoli (le mangiate e i balli). Insomma la politica e la vita di partito erano il principale tramite e luogo del dibattito e del confronto pubblico. Di discussioni che davano anche la sensazione ai semplici militanti e cittadini di partecipare e in qualche modo contare. Erano forma e sostanza di un esercizio di cittadinanza attiva che era politico e culturale assieme.
Di questa diffusa e forte trama associativa non c’è più traccia. È svaporita, collassata, liquefatta. Quando oggi si dice e scrive della Lega e del M5S come gli unici partiti presenti sul territorio non si ha proprio idea di cosa si sta sostenendo. Ma soprattutto non si ha memoria e si pensa e crede che basti un gazebo domenicale o una raccolta firme sotto i portici di via Mazzini per essere “sintonizzati con la gente”. Anche le liste civiche hanno espresso poco più che un rifiuto della politica e dei partiti tradizionali post-tangentopoli. Un “uomo solo al comando”, con una cerchia ristretta di fedelissimi, fotografa la situazione di Parma al tempo delle giunte Ubaldi e Vignali. Se si pensa poi alla prima elezione di Pizzarotti e alla seconda con lancio del movimento civico “Effetto Parma” siamo praticamente seduti al famoso tavolo dei “quattro amici al bar” della canzone di Gino Paoli.
si pensa e crede che basti un gazebo domenicale o una raccolta firme sotto i portici di via Mazzini per essere “sintonizzati con la gente”
Ma ciò che voglio sottolineare è che il polmone culturale cittadino, rappresentato dai partiti politici, ma anche dalle emanazioni sindacali e associative ( l’Arci ad esempio) che mobilitavano i propri iscritti sui principali temi sociali e civili, era essenziale per concretizzare il confronto di idee e la pubblica discussione. C’erano poi altri due livelli dove la cultura poteva esprimersi in forme dirette e partecipate. Cioè attive. Una che potremmo definire alta e che si esprimeva al di fuori dell’università, in luoghi che erano gallerie d’arte, riviste culturali, circoli come il Borgo che in qualche modo era la risposta moderata e cattolica alla sezione locale dell’Istituto Gramsci. Il secondo livello era rappresentato dai caffè del centro, non solo quelli della piazza, dove si dava ritrovo soprattutto nelle sere e notti d’estate l’intellettualità cittadini (liberi professionisti, artisti, giornalisti, politici). In tutti i locali pubblici del centro (da Via D’Azeglio a via Farini, da via Cavour a Strada Repubblica) si giocava a carte e bigliardo, ma si discuteva anche e spesso erano discussioni furibonde sull’attualità cittadina e non solo sportive. Di quella trama di caffè e bar, che non sempre, ma talvolta erano “libere accademie”, è rimasto niente. Oggi infatti, come da parecchi anni, o è movida, cioè puro e chiassoso divertimento, oppure bar e caffè chiudono alle 7 di sera, perché non sono più luoghi a servizio della socialità bensì del lavoro. L’insalatona e il caffè bevuto, anzi trangugiato, in piedi ne sono il sciagurato emblema.
Morale della favola: se c’è e per arrivare a una modesta proposta. La conversazione, come genere ed espressione di interesse culturale per le idee e le opinioni degli altri, se non è morta se la passa malissimo. Perché ha più poche occasioni, ma soprattutto non ha più luoghi informali ove esprimersi. Conferenze, presentazioni di libri, vernissage di mostre, pubbliche letture e spettacoli – per ribadire il concetto – ce ne sono a più non posso. Tante che sovente l’unica cosa che fa difetto è il pubblico. Ecco allora che forse l’occasione di Parma 2020 potrebbe servire anzitutto a prendere coscienza del grande problema che ho cercato di evidenziare. Ossia che la cultura intesa come pratica attiva, consapevolezza, partecipazione alla vita e alla discussione sui grandi, ma anche quotidiani, temi della città ha urgente bisogno di ripristino. O se preferite, per usare una parola molto di moda, di rigenerazione. Bisogna infatti pensare alla politica e alla cultura in termini di infrastrutture civili e sociali da ri-costruire. Proprio come si fa con le strade, i trasporti e le (tele)comunicazioni bisogna attivare una nuova rete, metterci dei soldi, individuare dei (ri)animatori culturali, andare in cerca di idee che siano coinvolgenti, attivare nuove pratiche di engagement.
se è vero che “la cultura batte il tempo” è ancor più vero che il tempo ha già battuto la cultura
Ho consapevolezza che tale progetto è molto più difficile, impegnativo e problematico che realizzare le infrastrutture materiali (autostrade, ponti, porti, aeroporti). Basta vedere come è finito miseramente il progetto comunale di rilancio dei quartieri. E che è molto più semplice trovare i soldi per un concertone in Piazza Garibaldi a fine anno o per una festa con cena, una tantum, nel Ponte Nord. Però ed è un grande e drammatico però: se è vero che “la cultura batte il tempo” è ancor più vero che il tempo ha già battuto la cultura. Anzi l’ha abbattuta e stesa. Dunque è tempo – ma fuor di metafora – che si prenda pienamente atto che non c’è più tempo da perdere. Che non si può più aspettare che la cultura torni a essere non solo un motore economico e turistico, ovvero eventi e spettacoli, ma prima di tutto un costume, un’abitudine, una pratica che impegna quotidianamente ogni cittadino. A discutere, confrontarsi, dibattere. Ovvero a coltivarsi e coltivare gli altri: per essere migliore, contribuendo anche a migliorare la comunità in cui vive.
Giorgio Triani