La città-ristorante dove chiudono i negozi storici

I negozi storici, uno dopo l’altro, chiudono. Pezzi di storia della città, non solo commerciale, vengono archiviati. Ma nel disinteresse generale. Penso ad esempio a Ricchetti , abbigliamento per uomo e donna di gran classe e costo, che stava all’angolo di via Mazzini con via Garibaldi e che aveva fra i suoi clienti Pietro Barilla. Lì ad esempio, negli anni in cui Calisto Tanzi, regnava sulla città e foraggiava i politici nazionali e locali d’ogni colore, era uso passare, durante i suoi soggiorni parmigiani, Ciriaco De Mita, allora primo ministro e segretario della DC, per rifornirsi di abiti, camicie e cravatte. Lasciando, ovviamente, da pagare il conto a Mister Parmalat. Roba da poco, visto che lo scambio di favori fra politici e imprenditori, ha avuto nei due ultimi decenni del secolo scorso, dimensioni enormi. Ma l’esempio vuole solo ricordare che i luoghi del commercio ( piazze e vie) e beninteso i negozi, soprattutto quelli più importanti, per collocazione e attrattività, sono stati ben più che semplici occasioni di shopping. Incontri, conversazioni, ma anche sorprese, scoperte, nuove amicizie e ritrovamenti sono stati il contorno, spesso più importante del contenuto, degli oggetti comperati.

Attorno al commercio sono fioriti non solo gli affari, le attività economiche, ma anche lo spirito di una città.

Attorno al commercio sono fioriti non solo gli affari, le attività economiche, ma anche lo spirito di una città. Al punto che potremmo stabilire una precisa corrispondenza fra la crisi sociale, di partecipazione anche politica, di ritrovo e comunanza da strada o da bar, e quella del commercio cittadino: entrambe più che ventennali. Oggi flagranti e sotto gli occhi di tutti, ma in azione già a a cavallo dei due secoli. Quando il problema della decadenza commerciale, soprattutto del centro storico, a partire da via Bixio, sembrava essere solo un problema di pedonalizzazione, illuminazione e sicurezza. Da cui la richiesta di non chiudere alle auto, di mettere più luci e telecamere di sorveglianza. E di contenere l’apertura di centri commerciali.
Ma detto che su questi temi si è consumato un dibattito anche cruento ma sterile fra i partiti politici, l’amministrazione comunale di turno e le associazioni di categoria, aggiungeremo che è mancata e manca soprattutto la consapevolezza che siamo di fronte a una crisi sistemica. A un sommovimento epocale di cui il commercio è solo un pezzo, ma fra i più devastati dalla digitalizzazione, che certo è e-commerce, ma anche nuove sensibilità e modi di muoversi e usare la città.
E qui possiamo tornare all’affermazione iniziale. Alle chiusure di alcuni negozi storici, proprio in due luoghi fra i più pregiati della citta: via Mazzini e Piazza della Steccata. Fanti con le sue splendide vetrine, illuminate dai cristalli di Baccarat, dai vetri di Venini, dalle porcellane di Lalique è il primo dell’illustre lista, mentre, invece nella piazza dove resiste la cappelleria Vender, dopo la chiusura lo scorso anno di Passalacqua, ora è il turno di Grossi, merceria storica la cui vetrina guarda la statua del Parmigianino. Ed è proprio il proprietario a darmi una chiave di lettura. Solo il food non è in sofferenza e anzi viaggia alla grande. Talchè, dopo avere osservato come per ogni vecchio negozio che chiuda i subentranti siano quasi sempre anonime catene di franchising, suggerisce con ironia prossima al sarcasmo che bisognerebbe moltiplicare le occasioni di pasti e pranzi dei parmigiani: dai classici due a quattro. Anche sei
In verità in qualsiasi città, piccola o grande, si vada, il maggior numero di negozi e vetrine è fatto da luoghi che mostrano e vendono food&wine nei più disparati modi, tradizionali e non, da strada o da asporto. Per tacere della tv, dove non c’è emittente e canale che non offra schiere di spadellatori di giornata e chef stellati ai fornelli. A Parma però il mangiare è sovrano e il centro storico ora che sta arrivando la bella stagione è prossimo a diventare un’enorme mangiatoia a cielo aperto. Diurna e notturna, la grande bouffe non dà tregua e ai parmigiani non resta che sedersi a qualche tavolo, arrampicarsi su uno sgabello, radunarsi attorno a una botte, girare per strada con il bicchiere in mano. Una città nella quale, per dirla schietta, è tutto una magna-magna
Con ciò spero sia chiaro che non ho intenzioni da predicatore astinente o snob inappetente. Ma è indubbio che questa esagerata passione cibaria ci abbia preso la mano e un po’ il cervello. Abbia ottuso e stia ottundendo lo spirito critico e la convivialità, della quale il cibo sia una componente o anche un pretesto, ma non il contenuto esclusivo. Le ragioni sono tante e attengono l’invecchiamento della popolazione, più propensa ai piaceri della gola che ad altre lusinghe materiali, il venire meno di alcuni interessi intellettuali (in primis la politica), la crescente solitudine delle persone o scarsa socievolezza che hanno bisogno del cibo e del vino per ritrovarsi e scaldarsi.

Non sfugge però la coincidenza fra crescente “foodizzazione” del centro storico e continua chiusura di esercizi e negozi con merceologie no-food.

Ovviamente parlando di commerci ci sono altre e più specifiche ragioni, alle quali abbiamo già accennato, che contribuiscono alla profonda crisi delle strutture e del tessuto tradizionale. Non sfugge però la coincidenza fra crescente “foodizzazione” del centro storico e continua chiusura di esercizi e negozi con merceologie no-food. Certo se evocassimo una relazione di causa-effetto fra i due fenomeni diremmo una sciocchezza. Tuttavia è evidente che la città-ristorante è sempre più una realtà costruita a misura di turista o comnque dei cosiddetti user-city, ovvero chi viene in città solo per lavorare o divertirsi, ma non l’abita. Essendo altresì evidente che mancano progetti e visioni all’altezza delle profonde trasformazioni in atto. Ripensare il commercio significa infatti ripensare la città in tutte le sue funzioni e spazi. Ma per farlo occorre guardare alla realtà con occhiali nuovi. Uscire dalle strette di un dibattito ora protestatario ora velleitario, ma quasi mai progettuale e sperimentale. E tale perché la parola chiave è “attrattività” e perché al centro della proposta sono ben individuati gli “attrattori” (una galleria d’arte, una serie di negozi esclusivissimi, giardini verticali, strade a tema?) che potranno realmente riqualificare una piazzetta, rigenerare un’area commerciale, ristabilire una trafficata e ricca socialità da strada. 

Giorgio Triani