foto: Giovanni Ferraguti

La cocomera con il tassello

Ehi, voi di Parma, quelli classe ante ‘75, vi ricordate quel vicoletto che, partendo da Borgo Tanzi (casa natale di Arturo Toscanini, tra l’altro), passando sotto uno stretto portico, costeggia il Parco Ducale ed arriva al Ponte Verdi?
Sì, quello lì, quel vicoletto, dall’altisonante nome di Borgo Farnese, che chiamarlo via era davvero troppo.
Tra la torretta in mattoncini e il ponte, la via si allarga leggermente.
Qualcuno della mia età ci sarà che ricordi che proprio lì, all’angolo, d’estate spuntava puntuale, come un fungo dal sottobosco, un chioschetto di quelli che oggi farebbero rabbrividire l’Ufficio di Igiene, ma che vi assicuro era pulito come la nostra casa.
Lì si vendeva la cocomera.

tempo fa la cocomera (la Crusca mi perdoni ma a Parma si diceva la cocomera, non il cocomero) non la si trovava al supermercato

Sì, perché tempo fa la cocomera (la Crusca mi perdoni ma a Parma si diceva la cocomera, non il cocomero) non la si trovava al supermercato, tra le banane e le pesche, allora la cocomera era considerata un frutto nostrano, sì, ma che conservava quel non so che di esotico, forse proprio perché non la si trovava dall’inizio di marzo a settembre, come ora.
Quel chioschetto lì vendeva cocomera. E basta.
Non cocomera, gelato, pizza ai funghi, piadina romagnola e risotto alla pescatora. Solo cocomera. L’acqua solo se la chiedevi e nel bicchiere, che sprecare una bottiglietta per berne un goccio era roba che non si poteva vedere.
Intanto le cocomere di allora erano enormi… davvero grandi…
Io ero sola una bambina e, si sa, sembra tutto più grande quando si è piccoli, ma per me quelle erano davvero gigantesche e avevano, per la maggior parte, quella forma strana, un po’ allungata, forse poco elegante per i gusti odierni.
Ricordo che chi poteva andava a comprarle nel mantovano perché, se si aveva la possibilità e la pazienza, si poteva trovare qualche agricoltore che te la vendeva a meno, purché te l’andassi a prendere tu direttamente nel suo campo.
E allora la terra era bassa proprio come ora e la cocomera nasceva in estate, sotto al sole, e pesava… pesava…

almeno quattro o cinque, da dividere con i vicini e i parenti

E dato che si era fatto un viaggio del genere mica se ne comprava solo una, no, almeno quattro o cinque, da dividere con i vicini e i parenti e quel gruppo di acquisto arcaico capite che costava una certa dose di fatica.
Ed ecco il ricordo della nostra auto, una seicento blu, che allora era proprio una gran bella macchina, che aveva il sedile di dietro pieno di cocomere ed io ero lì, tra una e l’altra, con il compito ben preciso di non farle rotolare in caso di frenata, che ci mancava solo che si rompessero e allora sì, guai a te!
Ma, prima ancora che la vendita avvenisse, tra acquirente e venditore iniziava una contrattazione del prezzo che nemmeno nel mercato ambulante di Bagkok si può vedere e, prima che l’affare fosse concluso, il contadino tirava fuori il suo coltello e, fiero e tronfio del suo prodotto, faceva il “tasel”.
Dai… non posso essere l’unica che ricorda questa cosa, d’accordo che ora non si usa più, ci mancherebbe solo che nel nostro mercato globale, multimediale e monosapore ci fosse la pretesa dell’assaggio!
Ma allora il contadino faceva questa profonda incisione a forma triangolare nel frutto, ne estraeva la succulenta incudine e faceva assaggiare…
Non c’erano mica tante storie allora, la midolla no… non è abbastanza fredda… mi sbrodolo…
Era una gioia poter assaggiare la polpa ma, come fanno ora i più prestigiosi sommelier, c’era un cerimoniale ben preciso da rispettare. Prima si annusava la scorza, poi la polpa, poi si guardava il colore interno (che non rivelasse un frutto troppo maturo) ed infine si poteva procedere finalmente all’assaggio. Io quel sapore lì lo sento ancora.

Quell’estate, eravamo nel luglio 1982, una parte del mio cuore è rimasta proprio in quel chioschetto, tra la mia fetta di cocomera e il piatto.

Ma quell’estate, in Borgo Farnese, faceva così caldo che la poca gente rimasta in città era obbligata ad uscire per cercare un po’ di fresco.
L’aria condizionata non l’aveva nessuno. Qualcuno preferiva starsene in casa con tutte le finestre aperte (no zanzariere – e chi le ha mai viste quelle) e passeggiando si potevano intravedere le televisioni accese, rigorosamente in bianco e nero e senza telecomando. Lo zapping era una roba che ancora non esisteva e che avremmo dovuto aspettare altri trent’anni. Se volevi cambiare ti alzavi, giravi la manopola e ti tornavi a sedere.
Quell’estate, eravamo nel luglio 1982, una parte del mio cuore è rimasta proprio in quel chioschetto, tra la mia fetta di cocomera e il piatto.
Era la sera dei mondiali di calcio, fuori non c’era molta gente, ma non so come io ero riuscita ad ottenere la mia fetta di cocomera “a la carte”, senza doverla prima cercare direttamente nel campo del produttore.
Ricordo perfettamente che te la servivano nei piatti, non quelli di plastica come ora e che il coltello che ti davano era di quelli dal manico nero, che avevamo tutti noi dell’Oltretorrente, nelle nostre cucine.
Ti portavano la fetta proprio così, servita al tavolino, bella fresca, mentre da una parte il fiume scorreva, più sotto, e dall’altra Maria Luigia vegliava dalla sua residenza.
Ricordo perfettamente il sapore dolce, che si poteva gustare allora per poche lire, ma che era comunque un privilegio, perché fuori a cena ci si andava davvero poco ed essere lì, seduti e serviti, era già un evento.
E in quell’oasi di felicità di bambina ricordo un boato assordante e un fiume di gente che si riversava nel Borgo e sul ponte e gridava, cantava, rideva, le macchine strombazzavano ed i signori del chioschio ci offrirono la nostra fetta di cocomera.
Era il 11 luglio 1982, l’Italia vinceva i mondiali contro la Germania e una parte del mio cuore è rimasta lì, per sempre, tra il fiume, il torrione, il chioschetto e la cocomera con il tassello. 

Rita Bacchi Pessina