
Tardini. Un dono avvelenato
Quando il magnate americano Kyle Krause acquista il Parma, gloriosa squadra più volte sugli altari ed altrettante nella polvere, si inserisce in una tendenza che vede diversi clubs calcistici italiani acquistati da finanzieri americani. Ciò pare sia dovuto al fatto che l’acquisto risulta vantaggioso per il prezzo relativamente basso delle nostre squadre di serie A rispetto quelle di altri campionati europei, in rapporto all’elevata notorietà delle stesse. E, attraverso tali acquisizioni ci si garantisce l’accesso ad un mercato economico-finanziario, quello italiano, che nei confronti del calcio ha sempre mostrato un occhio di riguardo.
Parallelamente, il nuovo Presidente elabora un progetto per la realizzazione di un nuovo stadio che presenterà poi all’Amministrazione comunale, Sindaco Pizzarotti: esso prevede, com’è noto, un rifacimento totale, con demolizione e ricostruzione dello stadio lì dove si trova. La Giunta fa proprio tale progetto accogliendolo in maniera totalmente acritica, come un “dono” dell’illuminato benefattore alla città.
Il fatto che l’area Tardini costituisca un serio problema, non solo per il quartiere dove si trova (praticamente in centro storico), ma per l’intera città (traffico congestionato, problemi di sicurezza, necessità di militarizzare un’ampia area in occasione delle partite); che sia frutto di scelte risalenti ad un secolo fa, riconfermate da ristrutturazioni ed ampliamenti frettolosi dettati da “stato di necessità” (adeguamenti regolamentare, scarsità di risorse finanziarie pubbliche, commissariamento del Comune): tutto ciò viene glissato in nome di un “interesse superiore”.
Va detto che il processo di acquisizione degli stadi da parte delle società calcistiche è la nuova tendenza del calcio europeo e, da qualche tempo, anche di quello italiano. Le squadre oggi spesso rappresentano solo un asset, certo assai importante, di holdings economico-finanziarie dalle molteplici diramazioni. Siamo di fronte a veri e propri attori economici globali, dotati di capitali transnazionali, attivi in settori assai diversificati e ampiamente eccedenti il solo ambito sportivo, ma fortemente interessati, come detto, a un radicamento territoriale e salde connessioni con gli attori del governo locale (ai quali talvolta si affiancano, ma talvolta si sostituiscono nel determinare le politiche territoriali, come sembrerebbe nel nostro caso).
Ciò non solo ha cambiato il vecchio modello di gestione, ma ha cambiato anche il “modello” di stadio a cui eravamo abituati, quello monofunzionale, dove si svolgono solo le partite della squadra locale, salvo occasionali e sporadici eventi extra-calcistici. Oggi, a questo nuovo modello gestionale di tipo privatistico (lo stadio proprietà della società a cui appartiene il club), si associa un’articolazione di funzioni atte ad ospitare un’ampia gamma di attività che lo rendono fruibile e redditizio per 365 giorni all’anno. Negli stadi e nei loro ambiti di pertinenza trovano spazio offerte di consumo più o meno connesse al core business del calcio: l’intero stadio finisce per assomigliare a un centro commerciale a tema, il cui focus principale rimane ovviamente la partita, ma orientato a moltiplicare gli atti di acquisto che possono essere immaginati a contorno della partita stessa. In tal modo esso diviene anche un richiamo potente e ad ampio raggio, con ricadute importanti sotto il profilo del marketing territoriale.
Questi aspetti paiono manifestarsi anche nel progetto Krause. Esso tuttavia, rispetto ai più evoluti esempi italiani e soprattutto europei, sembra quasi “soffocato nella culla” proprio perché previsto sorgere sulle ceneri del vecchio impianto: appena tremilacinquecento mq, costretto tra edifici residenziali e scolastici. Ma immediatamente a ridosso della zona monumentale della città.
Con ciò viene meno la possibilità, per il nuovo impianto di rappresentare pienamente quel manufatto iconico, quel nuovo brand capace di attrarre investitori e visitatori e che, nelle esperienze più evolute, ha costituito l’occasione, la leva principale di ambiziose operazioni di riqualificazione di parti di città problematiche, dismesse o degradate.
Invece quella proposta dalla società calcistica e supinamente accettata dagli Amministratori della città, è un’operazione in fin dei conti di piccolo cabotaggio, che rinuncia fin da subito ad alzare gli occhi su quella che avrebbe potuto essere un’occasione importante, un progetto di vera “rigenerazione urbana”, ad una scala territoriale proporzionale al suo potenziale in termini di valorizzazione non solo dell’impianto in sé, ma dell’intera città, arricchendola di nuove funzioni. Insomma, un nuovo polo attrattivo a larga scala, in grado di aumentare la competitività dell’intero territorio.
Senza contare l’importante risorsa costituita dal vecchio impianto, prezioso “enclave” nel cuore della città, che rimarrebbe di proprietà pubblica, su cui si potrebbe avviare, attraverso forme di collaborazione pubblico/privato, una profonda riconversione architettonica e funzionale sul modello, ad esempio, di quanto fatto nel vecchio stadio di Highbury, dopo la costruzione del nuovo impianto dell’Arsenal, con nuove residenze universitarie, loft ottenuti ristrutturando le vecchie tribune, servizi di quartiere, giardini pubblici, un centro sportivo con programmi per giovani in difficoltà ecc.
Al contrario, ricostruendo lo stadio in situ, non sarà affatto la città a trarne beneficio, anzi: un importante quadrante ne risulterà ulteriormente penalizzato sotto il profilo del carico urbanistico. A trarne beneficio sarà unicamente l’attuatore del progetto che, diventando concessionario per novant’anni di un’area pubblica di grande valore, potrà sfruttare parassitariamente la rendita di posizione derivante dall’adiacenza al centro storico, ridotto al rango di “stampella” dell’operazione calcistico-immobiliare. Ripensandoci, la ridondante magniloquenza della configurazione architettonica presentata in prima istanza, forse voleva essere una semplice “mascheratura” della pochezza del progetto nel suo insieme.
Come non bastasse, ora si preannuncia un restyling improntato all’”asciugatura” del manufatto ed all’alleggerimento delle funzioni insediate, in cui il greenwashing verrà profuso a piene mani; il tutto incartato in un’abile e coinvolgente strategia comunicativa condotta da un’azienda specializzata in questo tipo di operazioni per rendere meno indigesto il tutto. Ma sarà difficile nascondere la realtà: la solita, vecchia rendita di posizione, per dare valore ad un progetto di basso profilo ed alto impatto negativo sulla città.
Certo, per immaginare una soluzione diversa sarebbe stata necessaria una capacità di visione ed un’autonomia di pensiero che, in questo caso, le Amministrazioni cittadine che si sono succedute in questi ultimi anni non hanno mostrato di avere. Ma sarebbe stato necessario anche, da parte di Mr. Krause, uno sguardo più fiducioso nel futuro della squadra del Parma, nella sua capacità di tornare ai vertici del calcio nazionale ed europeo, come il suo blasone potrebbe ambire. Questo ripiegare su di una soluzione “garantita” dal valore immobiliare dell’area Tardini, ci insinua questo amaro sospetto.
Riccardo Tonioli