Il destino del fotogiornalismo italiano

Intervista a Edoardo Fornaciari

Edoardo Fornaciari, classe 1952, è un fotografo e fotoreporter italiano.
Ha alle spalle anni e anni di grandi corrispondenze giornalistiche. Un curriculum da invidiare, un’esperienza fotogiornalistica che merita di essere raccontata.
È stato il corrispondente da Roma dell’agenzia fotografica francese Gamma Presse Images, accreditato in Vaticano. Ha collaborato con Time Magazine, The New York Times, Epoca, L’Europeo e, infine, a Panorama Travel (fino al 2012, anno di chiusura del giornale) per il quale ha viaggiato in Italia e nel mondo.
Chiediamo oggi a Edoardo Fornaciari cosa è cambiato in questi anni, cosa ne pensa, cosa si potrebbe continuare a costruire nell’ambito fotografico ma soprattutto nell’ambito specifico del fotogiornalismo.

PASSATO E PRESENTE
Edoardo il suo curriculum da fotogiornalista lascia spazio, in realtà, a poche domande. Mi piacerebbe però sapere da lei, che ha assistito in prima persona al passaggio dalla fotografia analogica a quella digitale, cosa è cambiato principalmente e cosa, forse, si è perso del tutto.
“Per rispondere a questa domanda è necessario partire dalle basi per non rischiare di banalizzare il senso stesso della fotografia. La fotografia è uno dei tanti linguaggi della comunicazione e serve per comunicare emozioni, esperienze ad altre persone. Ogni linguaggio della comunicazione ha peculiarità precise e questo ovviamente vale anche per la fotografia. La fotografia racconta ed esprime cose necessariamente visibili. Nel momento in cui un fotografo fotografava un avvenimento, ai tempi dell’analogico, si guardava intorno per capire quante persone, in quel momento, avevano realizzato delle immagini dello stesso avvenimento per sapere e capire quanto potesse essere “esclusivo” il proprio servizio appena realizzato. Di esclusività oggi è difficile parlare, basti pensare alle quantità di immagini che circolano oggi sul web.”

Per darmi un’idea generale Edoardo mi racconta un episodio della sua vita, quando era corrispondente dell’agenzia fotografica francese Gamma. Il racconto chiarisce bene cosa, durante questi anni, è cambiato nel mondo del fotogiornalismo.
Era il 27 dicembre del 1985, erano le nove del mattino, Edoardo Fornaciari viveva a Roma. Inaspettatamente arriva una telefonata dall’agenzia Gamma di Parigi per cui Edoardo lavorava come corrispondente. Il giornalista di turno gli comunica che le telescriventi erano impazzite e che all’Aeroporto di Fiumicino era successo qualcosa di inaspettato. Edoardo si reca velocemente all’aeroporto e nota una fitta presenza di carabinieri e poliziotti che avevano bloccato soprattutto il terminal delle partenze internazionali dell’aeroporto. In pochi minuti si ritrova circondato da fotografi, cameraman e giornalisti tenuti necessariamente fuori dalla zona blindata. Nessuno diceva niente riguardo all’accaduto se non qualche parola come “attentato” “strage”, sicuramente qualcosa di terribile. Alle 14 di pomeriggio la situazione si sblocca (pensiamo al lasso di tempo di cinque ore) e Edoardo riesce a rientrare nel primo gruppo di fotografi autorizzati a salire sulle balconate panoramiche della hall delle partenze internazionali di Fiumicino. Accesso autorizzato esclusivamente a tre fotografi e tre cameraman. La scena era terrificane, cadaveri a terra mitragliati, si scopre, da un commando palestinese. Edoardo aveva al suo fianco un fotografo dell’ANSA, che disse che avrebbe scattato tutto esclusivamente in bianco e nero, e un altro fotografo di un’agenzia romana che, essendo di origine ebraica e vedendo la scena, riempì i rullini della macchina fotografica di lacrime e non riuscì a scattare niente. Il sangue freddo di Edoardo, invece, gli permise di rimanere lucido e decise di scattare tutto a colori, anche solo per differenziarsi dall’ANSA che avrebbe pubblicato in bianco e nero. Comprese che doveva offrire qualcosa di diverso alla comunicazione, ai giornali e alla sua agenzia. Una volta scaduto il tempo a disposizione per scattare, Edoardo dalle voci dei suoi colleghi che stavano salendo sulle balconate e che agguerriti si sarebbero recati nello stesso identico posto per scattare, capisce che pochi secondi dopo aver scattato le sue fotografie, la scientifica aveva coperto i corpi delle vittime. In quel momento comprese di aver realizzato qualcosa di veramente esclusivo. L’unico ad aver scattato a colori, l’unico ad averlo fatto quando ancora i corpi dei cadaveri non erano coperti da teli bianchi. Aveva l’esclusiva e quell’esclusiva gli rese una copertina su Paris Match e decine di milioni di lire.
Un esempio pratico questo per comprendere come il lavoro del fotogiornalista da venti anni a questa parte sia non solo cambiato, ma talvolta anche declassato. Cosa sarebbe successo oggi? Le foto sarebbero arrivate da polizia, carabinieri ma anche di semplici cittadini presenti sulla scena, scattate con il cellulare, e dieci minuti dopo la strage sarebbero state inviate ai giornali per diffondere l’accaduto. Le fotografie della strage di Fiumicino scattate da Edoardo Fornaciari nel 1985 vengono stampate a Parigi quasi dodici ore dopo l’accaduto e vendute ai giornali per il giorno seguente.
Oggi se pensiamo anche solo alla parola esclusività ci viene da sorridere. Ma il fulcro della riflessione non è tanto l’esclusività che oggi il fotogiornalista ha perso. Quanto più la qualità fotografica che sta diventando un’utopia in ambito giornalistico.

I giornali, secondo il suo punto di vista, hanno avuto una qualche responsabilità nell’accontentarsi anche di immagini scadenti purché utilizzabili?
“Più che i giornali quello che ha distrutto completamente il valore (economico) testimoniale delle immagini giornalistiche è stato il web, che ha dato la possibilità di far fare tutto a tutti. Sulla qualità poi di quello che ne viene fuori ovviamente ne possiamo discutere.”

Non mi dica che anche Lei è dell’opinione che oggi “siamo tutti fotografi, basta avere un cellulare”. Sebbene il digitale abbia ridotto ai minimi le difficoltà di scattare buone fotografie anche in situazioni complesse, non credo si possa affermare che l’importanza della tecnica fotografica sia del tutto azzerata.
“Se intendiamo la fotografia solo da un punto di vista tecnico è indubbio che oggi le macchine fotografiche alla portata di ognuno di noi sono i cellulari. Dispositivi completamente automatici che ti permettono di scattare fotografie mediocri e talvolta anche di correggerne velocemente qualche dettaglio (contrasto, colori, ritaglio etc.) Questo è un dato oggettivo ed in questo senso sì, possiamo essere e siamo tutti fotografi. È una “teoria” sostenuta da tanti, anche da famosi fotografi, che però hanno sempre visto e considerato la fotografia come un calcolo matematico tra esposizione, ISO e diaframmi. Una volta fatto il calcolo, posizionata la macchina sul treppiede, ecco completato il lavoro.
Ma la fotografia, oltre ad essere un condensato di tecnica e capacità, è un linguaggio della comunicazione così come lo è la parola scritta o orale. Se la pensiamo in questo senso no, non possiamo essere tutti fotografi perché comprendere e saper usare questo linguaggio e saper realizzare un servizio fotografico degno di essere chiamato così, non è banale. Non lo è neanche oggi. Oltre a saper scattare è necessario saper costruire un racconto e conoscere cosa voglio raccontare, conoscerne il contesto, il problema. È necessario sapere cosa stai fotografando, cosa stai raccontando perché se non capisci tu in primis non potrai mai far capire agli altri. La fotografia è racconto e non tutti sanno raccontare.”

ATTUALITÀ
Edoardo Fornaciari ha lavorato durante gli anni, forse più proficui e floridi, del fotogiornalismo italiano. Anni in cui un fotoreporter era un professionista riconosciuto e quando, soprattutto, alla fotografia e alle immagini si dava un valore che oggi sembra quasi inconcepibile. Oltre a essere passati dall’analogico al digitale, abbiamo assistito ad un cambiamento repentino nella cultura visuale con l’arrivo del web prima e dei social media poi. Un flusso incontrollato di immagini che scorrono violentemente, davanti ai nostri occhi, i quali non sono più capaci di contraddistinguere una buona fotografia da un’altra del tutto priva di significato. Ciò che è importante oggi è che le immagini costino poco e arrivino subito a chi le deve usare.

Lei, Edoardo, cosa pensa di questo attuale momento storico nell’ambito della fotografia?
“La fotografia di oggi è tirata via, è fatta in fretta, è priva di conoscenza di base. Abbiamo parlato di racconto, di sapere e conoscere ciò che andiamo a fotografare e oggi tutto questo non c’è. Si punta alla quantità stroncando le gambe alla qualità. Se oggi un giornale vuole pubblicizzare un evento carica online una carrellata di foto che sono tutto tranne che rappresentative, anzi, talvolta sono anche controproducenti. Si accontentano di abbondare di immagini anche se non raccontano niente. Prima era tutto diverso, era necessaria oltre alla conoscenza dell’avvenimento era fondamentale saper produrre un’analisi dettagliata del racconto, ma allo stesso tempo avere una grande capacità di sintesi fotografica. Se conosci un fatto puoi prenderti la responsabilità di sintetizzarlo, se non conosci tendi ad abbondare per colmare la tua mancanza.”

UNA PROSPETTIVA PER IL FUTURO
È sbagliato, forse, decretare la morte del fotogiornalismo. Ogni settore, con il passare del tempo, cambia, si rinnova, cambia volto ma può rinascere. Quando si parla di giornalismo cartaceo, per esempio, è ormai abitudine pensare che nessuno compra più il giornale, tutto viene letto online e che investire in quel settore è da pazzi. Vero, ma se questo settore vuole rinascere può farlo. Come? Semplicemente differenziandosi in maniera netta dal giornalismo online. Dimenticandosi del gossip frivolo, degli scoop da salone dei parrucchieri ma concentrandosi piuttosto su tematiche serie, importanti, che richiedono studio e tempo di elaborazione, che possono essere lette oggi ma anche tra un mese senza risultare “passate”.

Lei pensa che questo possa avvenire anche in ambito fotografico? Il fotogiornalismo italiano potrebbe reinventarsi?
“Agli inizi degli anni 2000 molti fotografi, provenienti dal fotogiornalismo, si sono rivolti a chi interessava che le notizie uscissero e si sono messi a disposizioni di aziende ed enti sociali che volevano far si che i giornali pubblicassero le loro storie. Per esempio, io ho lavorato tantissimo nel settore enogastronomico della Bassa Parmigiana con un grande chef della zona. Ho realizzato tanti servizi fotografici sulla gastronomia della zona, ma anche sulla storia di quel territorio geografico circoscritto. Si può fare ancora oggi giornalismo di contenuti, si possono ancora realizzare grandi reportage ma solo se si trovano i soldi e se i finanziatori non sono più i grandi editori. Ma soprattutto se si trova ancora oggi una nicchia di cui poter ancora raccontare.”

Si conclude così la mia conversazione con Edoardo Fornaciari, con molti dubbi concreti sul futuro del fotogiornalismo e della fotografia in generale. Ma con una speranza e una consapevolezza comune. La fotografia nasce come mezzo di comunicazione, come vero e proprio linguaggio che non tutti sanno utilizzare e valorizzare. Ma che soprattutto “Non esiste la fotografia artistica. Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare.” (Nadar) e allora quando pensiamo di essere tutti fotografi con un cellulare in mano dobbiamo considerare proprio a questa semplice, ma essenziale, distinzione.  

Agnese Fochesato