Parma 2020. Capitale culturale.
Ma senza comunità intellettuale.

Somari sapiens. Ignoranti, ma coltivati. Paradossale: ma siamo messi così. Ed è una condizione inedita. Siamo in coda a tante classifiche internazionali su numero di laureati, competenze digitali, lettura di libri e giornali. Però siamo grandi consumatori di eventi culturali. È infatti la dimensione turistica e spettacolare della cultura nazionale, e di noi italiani, che si impone largamente su quella più critica e riflessiva di una cultura che non sia solo consumo, evento, ma desiderio, più intimo e personale, di capire, approfondire, partecipare. La crescita enorme dei festival, passati negli ultimi cinque anni da 400 a mille, assieme alla moltiplicazione di beni e siti Unesco e di giornate “della cultura di qualcosa”, ne sono flagrante espressione.
Ma di questo fenomeno ho scritto nella mia rubrica “Sociologia e dintorni” su Lettera 43 (https://www.lettera43.it/cultura-consumo-libri/) . Qui vorrei limitarmi all’ambito strettamente locale, ricollegandomi anche al confronto avuto con il sindaco Federico Pizzarotti e l’assessore alla cultura Michele Guerra a Tv Parma su Parma Capitale della cultura 2020 alcune settimane fa. E concentrandomi su tre questioni. 1) L’eventismo bulimico, ovvero la congestione di eventi che mette assieme di tutto e di più, con logica puramente cumulativa. 2) La scarsa capacità e volontà di innovare i modelli di fruizione culturale, anche quelli spettacolari. 3) La scomparsa di una comunità intellettuale che animi il pubblico dibattito cittadino, abbia luoghi deputati per incontrarsi e confrontarsi e possa orientare le politiche culturali.

Ora Covid -19 sta praticamente distruggendo la capitale culturale

Ora Covid -19 sta praticamente distruggendo la capitale culturale. Ed è un grosso problema oltre che un rilevante danno economico. Resta però il fatto e l’abitudine, a questo punto doppiamente sciagurata, perché tanti appuntamentiu saranno cancellati, di cumulare eventi a più non posso. Erano più di 400 quelli previsti, a cui se ne sarebbero aggiunti altrettanti nel corso dell’anno. In assoluto niente di speciale, se paragonato a grandi città come Milano dove ce ne sono molti di più anche se non è capitale culturale. Però la cosa da segnalare, negativamente, è che puntando sul tanto, sul di tutto e di più – e non sempre di qualità comprovata- si finisce col danneggiare, sia pure involontariamente, alcuni eventi molto buoni che meriterebbero particolare sostegno. Ma che finiscono invece per non essere premiati come meriterebbero dal pubblico. Certo fare delle classifiche o attribuire importanza diversa ai singoli eventi potrebbe essere scambiato come atto d’arroganza assessorile, però in un contesto in cui fossero chiari gli obiettivi e i criteri di valutazione sarebbe un incentivo per gli organizzatori ad alzare il tiro e la qualità della proposta. Ma non va scartata, anzi va sostenuta, l’idea, che la riduzione del numero di eventi debba coincidere con la crescita di valore e di importanza degli stessi. Seconda logica del lesss is more. Ovvero che è togliendo, riducendo che si migliora. Soprattutto se questa riduzione mira anche a valorizzare anticonformismo, libertà di pensiero, spirito critico. Pratiche e valori questi che da parecchi, decisamente troppi, anni sono dismessi. A tutto vantaggio, per ritornare alle considerazioni iniziali, di una cultura che essenzialmente e sciaguratamente è sempre più e solo spettacolo e consumo. Anche perché sempre più orientata al turismo.
In un mondo più che mai sottosopra e in rapidissima trasformazione c’è più che mai bisogno – per arrivare al secondo punto – di innovazione, di novità. Le conferenze classiche, ex cattedra, che trasferiscono all’esterno una modalità accademica tradizionale, non sembrano proprio rispondere a questa necessità. Se non in rari casi – come ad esempio le conversazioni filosofiche su “Pensare la vita“ che riescono a coinvolgere molte persone sui grandi temi però a partire dalle esperienze quotidiane, dai vissuti di tutti noi che non siamo filosofi di professione. Tuttavia sono le più diffuse, anche perché facili da organizzare. Nel contempo che offrono la convinzione agli organizzatori di proporre temi alti, argomenti di grande valore in modi divulgativi. In realtà tutto questo movimento di pensieri e parole, che si riassume in gran parte nella “terza missione” dell’università, ovvero la sua apertura al territorio, non produce quei fermenti culturali e sociali di cui oggi c’è disperatamente bisogno.

Perché si fa, appunto, dell’accademia. Letteralmente fuori luogo.

Perché si fa, appunto, dell’accademia. Letteralmente fuori luogo. Mentre curiosità, voglia di partecipare a progetti collettivi, di confrontarsi ed esplorare mondi nuovi, alfabetizzazione digitale e tecnologica, dovrebbero essere le “guide” di pratiche culturali di nuova generazione. Ovvero occasioni non di consumo culturale e spettacolare, ma di pratica culturale attiva, esercitata in prima persona e in gruppi, cerchie, anche social, mobilitanti. Oggi infatti per dirla tutta gli appuntamenti culturali sono tanti, ma più o meno è lo stesso pubblico che gira e rigira. Un pubblico ristretto e piuttosto su d’età. I grandi esclusi sono i giovani.
Arriviamo così al terzo punto. Quello più dolente. La scomparsa della comunità intellettuale cittadina. Naturalmente i tempi sono profondamente cambiati. E sarebbe pura nostalgia evocare quelli di Guareschi e Zavattini, dell’Officina parmigiana o dei caffè della piazza dei decenni 50/70 ove si ritrovava l’intellettualità cittadina più in vista ( l’ultimo libro di Guido Conti è in questa luce tutto da leggere). Però è un punto di partenza obbligato, per riflettere sul presente e soprattutto sul futuro di Parma, considerare che i periodi più luminosi della città e della sua cultura, cioè quando è stata davvero una capitale culturale, di respiro europeo, hanno coinciso con l’esistenza di una comunità intellettuale molto aperta all’esterno e attiva a livello cittadino.

Ma si può sempre ovviare e riparare nella seconda parte di Parma 2020.

Questa riflessione tuttavia non è in programma. Ma si può sempre ovviare e riparare nella seconda parte di Parma 2020. Consapevoli che non è facile né immediato mettere assieme e invitare al confronto e alla pubblica discussione le tante intelligenze e i tanti professionisti parmigiani che si esprimono nei più svariati ambiti della produzione culturale scrittori, poeti, musicisti, giornalisti, videomaker, pubblicitari, docenti universitari, attori, teatranti. Anche perché da trenta e più anni non lo si fa più. Tuttavia proprio per questo bisogna provarci. E qui l’assessore Michele Guerra, per ruolo, ma anche per sensibilità e intelligenza, è chiamato a farsene carico. A essere il primo, convinto promotore di una fase culturale che obbliga tutti a mettersi in gioco. A ripensarsi. A convincersi che dobbiamo ritrovarci.
Detta così sembrano giochi di parole. E’ reale però che Parma e i parmigiani abbiano fame, anche se non ne sono consapevoli, di confronti e scontri, mossi da passioni vere e convincimenti profondi sulle idee e visioni di città che devono mobilitare tutta la cittadinanza. Ma che come precondizione hanno bisogno di menti aperte, pensieri forti, spirito critico e passione civile. Insomma di èlites intellettuali e di comunità culturali. Che con i piani marketing eno-gastronomici e di promozione turistica della città non hanno nulla a che fare. Essendone in molti casi perfino la loro negazione. 

Giorgio Triani