
Quelle tre casette. San Leonardo amarcord
Sono nato al numero 110 della via San Leonardo, la via che dà il nome allo storico quartiere industriale, che scende dalla stazione ferroviaria sino alla via traversante e che intersecandola, separava il Comune di Parma da quello di Cortile San Martino. All’inizio degli anni ‘60 quella zona era ancora campagna; c’era, staccato dal resto del quartiere, un gruppo di tre casette riunite che andavano dalla vecchia scuola elementare sino alla trattoria dell’Imelde, frequentata in gran parte da camionisti che da lì proseguivano per per le terre lombarde e soprattutto raggiungevano velocemente l’ingresso dell’Autostrada del Sole , costruita in quegli anni. Non avevamo il bagno in casa. Per fare la toilette dovevamo uscire nel cortile per raggiungerlo. Anche per l’acqua potabile ci servivamo di una pompa ubicata nel cortile che veniva usata anche per lavare i panni. La casa era disposta su due piani. La cucina e la cantina a terra, le camere al piano. Sento ancora, al risveglio, i passi della nonna che sale le scale e mi prende amorevolmente in braccio pronunciando in dialetto “le cheld cme un chosè”. Avevamo un piccolo orto e una volta o due al mese si tirava il collo ad una gallina del pollaio ubicato nello stabio, dove una volta si teneva il maiale.
La Rina, la lattaia, passava tutte le mattine in bicicletta a rifornire i clienti
La Rina, la lattaia, passava tutte le mattine in bicicletta a rifornire i clienti. C’era anche l’uomo della lisciva e Merusi, quello dei gelati, tutti annunciati dallo scampanellio del loro triciclo cassonato. Il giornalaio passava solo la domenica mattina portandoci la nostra Gazzetta, che mi fece da abbecedario nell’imparare a leggere, prima ancora che andassi a scuola..
Pur vivendo ala periferia della città eravamo piena campagna, tre casette in mezzo ai prati.
Il quartiere San Leonardo ha caratteristiche peculiari. Gia’ dalla fine degli anni ‘50 sotto la spinta dell’industrializzazione, l’attività produttiva richiedeva l’impiego di sempre un maggior numero di maestranze. La famiglia di mio padre formata da mia nonna e da sei fratelli più qualche cugino, gestiva al tempo della guerra e negli anni immediatamente successivi, un podere in località poco distante, chiamata “Al Losi“ (le Logge), sempre sulla strada San Leonardo. Negli anni ‘50 si era trasferita nella casa dove sono nato io. Mio padre, come molti altri uomini della zona andò a lavorare nella fornace di laterizi , di via Paradigna dove , sopra il forno si raggiungevano anche ii 60 gradi e si facevano anche 12 ore filate di lavoro al giorno. Agli inizi degli anni sessanta, quando sono nato, il boom di bambini andava di pari passo con il boom dei negozi e delle fabbriche. In quel periodo,aprivano nel quartiere negozi alimentari, e di articoli casalinghi, elettrodomestici, ferramente, barbieri e parrucchieri, edicole ma soprattutto le industrie metalmeccaniche, del vetro e sartorie sia artigianali che industriali. In una di queste,vicino casa si impiegò mia madre, che proveniva dalla montagna parmense, prima di sposarsi. Il paesaggio naturale si trasformava rapidamente, in uno scenario costruito totalmente dall’uomo, assumendo via via l’aspetto, oggi talmente usuale da parer ovvio, di un agglomerato infinito di edifici di cemento e di ciminiere fumanti. Era l’alito del lavorio meccanico, che si innalzava al cielo emblema del progresso che era finalmente arrivato anche da noi. Il risparmio della fatica del lavoro dei campi richiedeva però, come contropartita, il sacrificio non piccolo di doversi adattare alla catena di montaggio e a diabolici macchinari che ti dettavano il ritmo, anche quando uscivi dalla fabbrica.
Il cemento si mangiava voracemente il suolo di prati, campi di grano e vigne
Il cemento si mangiava voracemente il suolo di prati, campi di grano e vigne; la città si protendeva in lungo e in largo, verso la nascente Autostrada, senza soluzione di continuità.
Ma l’industrializzazione portava con sé non solo un diverso modo di produrre e di lavorare ma anche una vera e propria civiltà industriale, dove soccombevano le credenze, le abitudini e gli usi del tempo ormai antico. Tale frenetico sviluppo portò a risiedere nel quartiere uno stuolo di famiglie dalla provenienza più disparata. Immigrati dal sud Italia, contadini della montagna o della campagna circostante, operai, impiegati e commercianti che si spostavano dal centro della città per avvicinarsi al luogo di lavoro. Dunque un’umanità variegata la cui integrazione non era sempre facile: si incontravano nel rapporto di vicinato famiglie e persone provenienti da mondi che sino ad allora, mai si erano incontrati, almeno in una tale prossimità fisica. All’interno delle fabbriche la sorte comune di un tempo alienante faceva da sfondo al formarsi di nuove identità che si liberavano storicamente dai vincoli della famiglia patriarcale.
Noi bambini e poi ragazzi di quel tempo, mentre ci arricchivamo di tante nuove conoscenze, assorbivamo l’allentarsi delle briglie autoritarie di un mondo che stava scomparendo, subendo inconsapevolmente il flusso di quei cambiamenti nel modo di vivere, di relazionarci con gli altri, nell’amicizia e negli affetti, non più normati dal vincolo impositivo familiare. Ci aprivamo ad un mondo nuovo di benessere economico e di libertà di scelte moltiplicate, ma anche di rincorsa obbligata a trovare nuovi modelli di identificazione, fondati sulla concorrenza e quindi possibilmente di successo, e senza orientamento alcuno. L’adolescenza portava con se spaesamenti, disagi e sofferenze, che in qualche caso si trasformavano in vere e proprie fughe mentali e materiali; fughe in vite rischiose. Qualcuno, anche tra i miei amici e compagni di allora non è più tornato indietro, non è più rientrato, vittima, ma in qualche modo anche artefice nel ribellarsi ad esse, delle forti contraddizioni che la trasformazione sociale stava provocando. Entravamo di fatto nella realizzata società democratica dei diritti e soprattutto del diritto a desiderare, della corsa al consumo, dove tutto diventava con-trattabile e commerciabile e nulla più era scontato in partenza nello scenario dei rapporti tra le persone, con gli amici, con i nostri stessi sentimenti . Eravamo tutti democraticamente “dentro un’unica città”, anche chi continuava a vivere in campagna. Quella vita di campagna in quelle tre casette a San Leonardo, non esisterà mai piu’; ma solo all’apparenza dei sensi. In realtà io so, noi che le abbiamo viste e vissute sappiamo, che esse esisteranno sempre, come sono sempre esistite e che noi siamo quel posto, noi siamo quelle tre casette!
Andrea Scapuzzi