Ascesa dello Smart working. Ma non a Parma

Analisi, dati e infografiche

L avoro agile, lavoro a distanza, lavoro senza orari prestabilti e nemmeno luoghi deputati (il classico ufficio, per intenderci): è la nuova frontiera di quel che ieri si chiamava telelavoro o lavoro a distanza e ora invece smart working. “Lavoro furbo”, perché flessibile nella migliore accezione e fattibile da casa propria o in luoghi comuni abilitati (spazi di co-working), ma che nella realtà nazionale stenta a decollare.
Secondo il rapporto presentato agli inizi di quest’anno, nel convegno “Smart Working ed evoluzioni normative”, in Italia sono più di 305mila i lavoratori che grazie ad accordi con le aziende possono scegliere dove, quando e come lavorare: si tratta di impiegati, quadri e dirigenti all’interno di aziende pubbliche o private con più di 10 dipendenti. Hanno in media 40 anni, lavorano al Nord, per il 68% sono uomini e, rispetto al 2013 sono aumentati del 60% e del 14% rispetto al 2016. Rappresentano poco più del 6% delle persone potenzialmente interessate allo strumento del lavoro smart. Un dato importante, ma ancora sostanzialmente lontano da quello europeo che registra una media del 17% della platea interessata allo smart working che è concretamente coinvolta.
Il 36% è la percentuale di grandi imprese nazionali che hanno già lanciato progetti di smart working strutturati (era il 30% nel 2016). Un’azienda su due ha avviato o sta per avviare un progetto, ma le iniziative che hanno portato veramente a un ripensamento complessivo dell’organizzazione del lavoro sono ancora limitate. Tra le Pmi l’interesse per lo smart working cresce, anche se a prevalere sono approcci informali. Nella Pubblica amministrazione solo il 5% degli enti ha attivi progetti strutturati e un altro 4% pratica lo Smart Working informalmente.
A Parma si conferma più che mai la struttura molto tradizionale del mondo del lavoro, restio a innovare e a sperimentare. Certo la situazione occupazionale è fra le migliori in Italia. Fanno testo i dati diffusi nel corso dell’ultima assemblea di giugno dell’Unione Parmense degli Industriali secondo cui per quanto riguarda l’occupazione, nel 2017 il tasso di disoccupazione nazionale valeva l’11,7 quello regionale 6,8%, quello della provincia di Parma il 5,2%.
Tuttavia i numeri dello smart working ducale sono veramente esigui. A parte Barilla che ha in progetto di avviare una forte azione di utilizzo dello smart working – ma al momento è una “intenzione” -, le imprese e ancor più le pubbliche amministrazioni risultano molto poco smart… e i lavoratori, evidentemente, molto poco propensi a diventare smarter working.

Sonia Galimberti

“Voglio il divorzio!”, disse il lavoratore alla scrivania…

In una società in cui la coppia fissa non è più un obiettivo di vita, il lavoratore decide di separarsi anche dal suo amato posto fisso.
Un focus sui fattori determinanti e sul dualismo che divide la società verso il “new way of working”.

Sempre meno giovani scelgono il matrimonio per consolidare la propria relazione di coppia. Sempre meno lavoratori si sposano con la scrivania che viene loro affidata per garantirsi un futuro.
Sono due tendenze che, viste assieme, condividono fondamenti e presupposti: la stabilità non è più percepita come valore e punto di forza nella vita privata, così come in quella lavorativa. Le nuove generazioni avanzano con l’idea che quanto più esiste legame, tanto meno esiste libertà individuale. Le ripercussioni nel mondo del lavoro pongono sotto un interessante riflettore il fenomeno dello “Smart Working“, o del “lavoro agile”, come l’ha definito la legislazione italiana.

UNA PRIMA DEFINIZIONE

Nel 2011 Siemens ha avviato in Italia una rivoluzione nell’impostazione dei propri uffici e nella policydi gestione dei propri dipendenti e collaboratori. La rivoluzione del “Siemens Office” (non a caso si fa riferimento allo spazio fisico del lavoro) riguarda oggi più di 1.700 collaboratori nel nostro Paese che lavorano in molti casi fuori dalla sede aziendale e mirano a raggiungere obiettivi, più che un numero di ore di lavoro giornaliero predefinito; il tutto adottando forme di lavoro più autonomo e mobile.
Il video promozionalediffuso dall’azienda italiana Siemens spiega in modo efficace cosa si intende per smart working; in primis due lavoratori ne sciorinano alcuni sicuri benefici per la vita individuale, come la possibilità di organizzare il tempo per accompagnare i figli a scuola, scegliere un parco come luogo di lavoro della giornata, in generale poter gestire con maggior autonomia gli orari di lavoro, così da dedicare risorse anche ad attività ricreative private, come la palestra.
I due interventi sottolineano i fattori principali per la corretta riuscita del progetto; in questa nuova organizzazione del lavoro il workerè chiamato a centrare degli obiettivi che gli sono affidati secondo tempi certi e predefiniti. Ne deriva una maggior responsabilità con cui perseguire gli scopi aziendali, e la costruzione di un legame con il datore di lavoro fondato sulla fiducia e la condivisione di parte delle strategie e delle finalità aziendali.
Il video sottolinea poi il ruolo fondamentale di una tecnologia abilitante che renda possibile questa rivoluzione culturale.

LE CARATTERISTICHE DELLO SMART WORKING

Una ricerca pubblicata nel 2017 e condotta dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano[1]evidenzia come il fenomeno si sia diffuso in Europa con modalità differenti, a seconda dell’ambiente culturale e dello stato di avanzamento tecnologico-informatico del Paese che lo ha introdotto.
Secondo la ricerca condotta dall’Osservatorio tra i Paesi pionieri dello Smart Working si ritrova l’Inghilterra che nel 2014 ha approvato la legge Flexible Working Regulation, l’Olanda che nel 2016 ha approvato il Flexible Working Acte e il Belgio che, pur non avendo una vera e propria legge in merito, ha presenti iniziative di Smart Working già dal 2005, non solo nel settore privato, ma anche in quello pubblico. Non dimentichiamo che anche l’Italia ha approvato il 22 maggio 2017 la legge sul «Lavoro Agile», senza prevedere obblighi o prescrizioni; anche in questo caso il Legislatore attribuisce alcuni diritti fondamentali ai lavoratori e pone lo smart working come pilastro di una nuova e più matura relazione tra individuo e organizzazione.
Non è facile, quindi, ricondurre il fenomeno a caratteristiche univoche. La letteratura ne ha tuttavia disegnato i tratti principali, proprio in considerazione delle differenti versioni diffuse in Europa, e ha evidenziato tre fattori determinanti.

LE TRE “B” DELLO SMART WORKING

Tra i paesi europei, il Belgio fa riferimento allo smart working come al “New Way of Working” e si concentra sull’utilizzo delle tecnologie digitali per superare i vincoli tradizionali di luogo e orario di lavoro; oppure lo definisce “New World Of Work“, un nuovo mondo costruito su tre “B” fondamentali: Behaviour, Bytes, Bricks. La letteratura belga, e ancor prima quella inglese, definiscono queste tre componenti come fondamentali per l’introduzione di una nuova cultura del lavoro; la grafica seguente riassume il principio di ognuna.

Immagine tratta dalle slide del convegno “SMART WORKING: un’opportunità digitale per incrementare la competitività” del 28/09/2017, organizzato da Studio Polato, Vicenza.

BEHAVIOUR

Il settore dei servizi è quello maggiormente coinvolto dal nuovo “way of work”.
Questa considerazione introduce una breve analisi storica sull’evoluzione dell’organizzazione del lavoro, per arrivare a comprendere come mai il “behaviour” (inteso non solo come comportamento, ma soprattutto come cultura manageriale) sia il primo tassello su cui costruire una dinamica di smart working.
La rivoluzione industriale, come è noto, ha introdotto delle novità rilevanti in termini di occupazione degli spazi e cultura del lavoro: progressivamente si sono abbandonati terreni e campagne, il lavoro si è trasferito dai campi alle fabbriche, ma soprattutto si è introdotta una scienza organizzativa per l’esecuzione del lavoro stesso. Il Taylorismoe lo Scientific management si sono concentrati sulla resa massima dei tempi e modi della produzione e hanno introdotto fattori nuovi: rigida gerarchia nei ruoli aziendali; sistemi di controllo del lavoratore; rispetto dei tempi scientifici della produzione. Il worker era semplice ingranaggio in una catena produttiva più grande e gli si chiedeva solo di agire; il modello era adeguato ad un’economia di produzione di beni. Nel mercato dei servizi, invece, questi principi non hanno modo di funzionare, perché l’output dipende in modo congenito dalla performance individuale, più che dalla prestazione del macchinario.
La ricerca pubblicata da “Seedble S.R.L.” nel 2015 e intitolata “The smart working book” evidenzia come la vecchia organizzazione del lavoro continui a venire applicata in molti luoghi aziendali, anche se non ha più connessione con le finalità specifiche perseguite dalla produzione, soprattutto in ambito servizi.

Rielaborazione a cura di Massimo Melchiori

Il nuovo management: gestione sulla base dei risultati

Propedeutica alla rivoluzione smart working è una nuova cultura del management, che prevede un passaggio fondamentale dalla retribuzione parametrata sui tempi del lavoro ad una valorizzazione del workersulla base degli obiettivi raggiunti.
Alla base di tale cultura deve risiedere la fiducia, su cui deve improntarsi il rapporto tra manager e collaboratore; le decisioni prese dall’alto devono essere discusse con chi si trova ai piani inferiori. Questa condivisione, relativa ad obiettivi e modalità di raggiungerli, diventa incentivo per il lavoratore ad ottenere il massimo dalla propria performance e a rendere quindi l’output qualitativamente più elevato possibile per l’organizzazione nella quale si trova inserito. Il lavoratore è inoltre sensibile ad altre leve, che poggiano sulla cosiddetta “teoria dell’autodeterminazione”.

Rielaborazione a cura di Massimo Melchiori

Gli incentivi per il lavoratore: la teoria dell’autodeterminazione

Considerata la nuova attitudine richiesta al management, quali sono invece i fattori incentivanti per il worker? Daniel Pink, autori di numerosi libri sul business, nel suo “Drive” afferma che le pratiche motivazionali basate sulla ricompensa in denaro del lavoratore sono ormai obsolete. Egli sostiene che una buona direzione aziendale debba far leva su altri assetrilevanti: l’autonomia, la padronanza e la significatività.

Rielaborazione personale a cura di Massimo Melchiori

In conclusione, la leadership aziendale impregnata di una cultura innovativa, attenta al comportamento verso i lavoratori, deve essere anche capace di guardare a questi tre fattori e saperli stimolare entro i limiti dei propri obiettivi. Senza completamente trascurare la leva della remunerazione economica.

BYTES (LA TECNOLOGIA)

Guardando ancora al mercato soprattutto dei servizi, l’evoluzione del web 2.0, in cui l’utente si è trasformato da consumatore a produttore di contenuti, ha messo a disposizione interessanti strumenti fisici e software (molti dei quali web-based) che hanno agito su due fronti:

  • hanno ridotto il consumo e la dipendenza dalla carta, e di conseguenza da un luogo fisico nel quale questa è archiviata;
  • hanno permesso di condividere informazioni in tempo reale, a prescindere dal luogo fisico nel quale si trovano gli operatori.

Anche in questo caso, l’innovazione tecnologica sopra descritta incontra dei freni da parte della cultura “tradizionale”, espressa da manager e lavoratori che continuano a riporre fiducia solo negli strumenti analogici del lavoro e che quindi faticano a modificare il proprio assetto organizzativo.
A questo punto si pone un quesito dirompente riguardo questi mezzi tradizionali.

Rielaborazione personale a cura di Massimo Melchiori

Oggi esistono strumenti di lavoro che permettono di superare le criticità evidenziate sopra. Il sito “nomadi digitali” si occupa di diffondere la conoscenza di un modo di vita alternativo a quello in cui esiste l’unico obiettivo di un’abitazione e un posto di lavoro fissi. L’articolo di Mary Tomasso pubblicato il 13 dicembre 2016 elenca alcuni dei toolsutili per il lavoro da remoto e suggerisce di fare affidamento sempre più su risorse disponibili online e su cloud.

La ricerca di Deloitte

Tra il 2012 e il 2013 la società Google Enterprises ha commissionato a Deloitte la ricerca Digital collaboration: Delivering innovation, productivity and happiness” in cui si apprezzava il gradimento dei lavoratori rispetto all’introduzione di strumenti di collaborazione via web. Lo studio è stato condotto su un campione di 3.600 utenti europei; i soggetti intervistati hanno indicato che l’avvento di questi toolha determinato:

  • il miglioramento nella qualità della comunicazione;
  • una maggior trasparenza;
  • l’aumento del livello di benessere (poiché è diminuito lo stress determinato da “cattiva” comunicazione).

Il tema della tecnologia permette di postulare alcuni corollari, necessari ad inquadrare gli aspetti della rivoluzione smart working; il primo riguarda ancora una volta l’aspetto culturale. Al fine di creare reale miglioramento delle condizioni di lavoro è necessario un adeguamento della mentalità degli attori; questo non deve riferirsi unicamente ai componenti del reparto informatico, ma coinvolgere tutti i settori.
Il secondo riguarda l’alfabetizzazione digitale, che deve diventare competenza essenziale se si pensa all’introduzione di modalità di lavoro nuove, slegate da una sede fisica e architettate sulla condivisione di obiettivi e di risultati. A questo proposito, è il caso di sottolineare che la “generazione Z” dei nati tra il 1997 e il 2010 si trova naturalmente avvantaggiata sul piano delle competenze tecnologiche e informatiche; occorre assicurarsi che il gap intergenerazionale venga ridotto, per evitare che l’organizzazione interna di un’azienda o studio professionale risulti penalizzata dalla differente velocità con cui si muovono worker digitalizzati e leadership aziendale.

BRICKS (I LUOGHI DI LAVORO)

La credenza per la quale lo smart working si realizzi solo fuori dagli edifici tradizionali previsti dalle aziende o dai professionisti per lo svolgimento dell’attività lavorativa deve essere sfatata. La teoria suggerisce piuttosto che all’interno di un’attività di lavoro ci siano fasi diverse, ciascuna delle quali richieda forme peculiari di compartecipazione e concentrazione. Diventa possibile individuare specifici luoghi per l’esecuzione di specifiche attività; dunque si rende necessario ripensare l’organizzazione e la struttura delle sedi di lavoro.
Anche in questo caso, una buona prassi suggerisce di coinvolgere in questo riassetto gli stessi workers, sempre nell’ottica di favorire la cultura della condivisione.
Le regole di disciplina interna all’organizzazione assumono un’importanza fondamentale; occorre prevedere che le aree di lavoro destinate all’analisi e approfondimento siano utilizzate in estremo silenzio (per favorire la concentrazione), a differenza di quelle dedicate alla condivisione e alla definizione di obiettivi congiunti.
Dal punto di vista dell’arredo e architettura le aree adibite alle chiamate di lavoro possono dotarsi di strutture capaci di contenere il rumore della conversazione (in alcuni paesi sono state introdotte le Skype boots, vere e proprie cabine telefoniche per le videochiamate su Skype). Anche lo studio delle sonorità degli ambienti svolge un ruolo chiave nel riassetto degli spazi di lavoro.
Di seguito alcuni esempi dei diversi ambienti che possono essere sfruttati dallo smart worker.

Rielaborazione personaledi Massimo Melchiori

Il caso Ahrend e l’arredo d’ufficio

Una tendenza interessante sembra riguardare l’arredo degli uffici. Ahrend, azienda olandese fornitrice di mobili per ufficio, si è concentrata per esempio sulla realizzazione di mobili modulari, così da permettere ad interi ambienti di lavoro di cambiare aspetto con velocità incredibili. Ancora una volta la flessibilità è l’esigenza estrema che viene perseguita nell’ottica dei nuovi modelli di lavoro.

SMART WORKER E NOMADI DIGITALI

Un altro degli articoli tratto dal blog dei “nomadi digitali”, a cura di Giovanni Battista Pozza, pubblicato nel maggio 2018, tratta le somiglianze esistenti tra la categoria dei nomadi digitali e quella degli smart worker.
In un’epoca in cui la tecnologia permette di svolgere alcuni tipi di lavoro ovunque siano disponibili una connessione a internet ed un tablet o computer sembra implicito che anche lo smart workerpossa scegliere di adottare uno stile di vita nomade. Il quesito che suggerisce Pozza sposta però l’interesse verso un’altra tematica. Non si tratta più di addossare un’etichetta e cogliere le differenze tra due modelli innovativi di lavoro, quello agile o nomade, quanto di chiedersi se ha senso fare una distinzione ancora tra i due modelli attuali: in uno scenario in cui la forza lavoro sta diventando freelance ha davvero senso parlare ancora di lavoro subordinato o autonomo?
A supporto della considerazione sono le stime“Freelance Unions”, secondo cui entro il 2027 almeno il 50% della forza lavoro negli U.S.A. sarà freelance. I numeri sono avvalorati dai risultati pubblicati dal quotidiano “Il sole 24 ore”, che in un articolo di Gianni Rusconi del 5 maggio 2017 afferma: “Una ricerca della società di software Intuit, per esempio, ci dice che entro il 2020 oltre 7,5 milioni di lavoratori americani (il doppio rispetto ad oggi) svolgeranno attività legate all’economia on-demand, e quindi fluide, flessibili e spesso intermittenti. In Italia, come rileva l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, sono già il 30% del totale le aziende italiane che si dichiarano favorevoli al lavoro da remoto.”
Oltre alle conferme dei numeri reali, esiste però una dimensione sociologica, legata alle opposte tendenze che si confrontano sul fenomeno smart working: da un lato le aspettative “liquide” di un’intera generazione di giovani che si sta affacciando al mondo del lavoro, dall’altra le preoccupazioni di chi quel mondo lo abita da decenni e vede difficile l’adeguamento culturale imposto dalla nuova mentalità del “lavoro quando e dove voglio”.
Comunque proceda la tensione che separa le due prospettive delineate, è in atto un cambiamento irreversibile, fortemente collegato all’evoluzione di una società che vive e si nutre di digitale. Porterà davvero i benefici attesi da chi auspica un miglioramento dovuto alle maggiori possibilità di organizzazione del proprio tempo individuale? Stimolerà la crescita e l’avanzamento delle competenze a favore di un progresso?
Non ci sono risposte certe a quesiti simili. Nemmeno se le chiediamo ai nuovi assistenti virtuali di Google o Amazon.

LINK UTILI PER L’ARTICOLO

[1]“New ways of working: il punto sullo smart working in Europa”, ricerca del 2017 a cura dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, School of management