
Visioni di città. Ma il futuro è adesso
Si parla molto di visioni, di come saranno le nostre città, Parma, Piacenza, Reggio Emilia… tra dieci anni. Si aprono continui dibattiti e convegni in rete. Nel 2010 chi avrebbe mai immaginato il deserto, i negozi sfitti, la crisi economica, la desolazione seguita alla pandemia che attanaglia le città non solo del nostro paese? Più che di visioni, forse, ci vorrebbero persone preparate per le sfide che sono già il nostro presente.
Eppure la costruzione di un’utopia e di un immaginario è fondamentale per la costruzione del futuro. L’architetto per costruire la casa a schiera o il grattacielo ha bisogno di un progetto che risponda alla domanda di funzionalità, stabilità e bellezza. La miopia delle scelte a breve termine, del consenso e del profitto subito, hanno portato a questa situazione drammatica. Così ho chiesto ad alcuni ragazzi che frequentano il Master “Web communication & socialmedia” all’Università di Parma di scrivere della loro città e come la vedono tra dieci anni. Tutto con grande libertà, tra racconto, invenzione letteraria, diario e confessione… gli studenti si sono divertiti a immaginarsi il futuro prossimo tra scetticismo, disincanto e favola. Non ho messo tutti gli elaborati, ne ho scelti alcuni. Noi tutti dobbiamo avere un’idea della città in cui viviamo anche perché il futuro nasce adesso, si costruisce dal nostro comportamento quotidiano. Le nostre parole e le nostre azioni sono oggi il futuro di domani.
Guido Conti
PARMA di Caterina Fava
Devo darmi una mossa. Sono in ritardo. E io non sono mai in ritardo. Corro giù per le scale, inforco la bicicletta e pedalo. Fortuna che non abito lontano dal centro. E fortuna che ho una bicicletta. Trovare parcheggio nell’ora di punta sarebbe impossibile. Per non parlare dei 5€ all’ora di parchimetro. D’istinto, faccio la mia strada preferita. Quella alberata. Di alberi e di verde ce ne sono sempre di più, ma questo stradone, con i castagni e con i raggi del sole che, passando tra i rami, rendono il marciapiede una sala di una discoteca, è da sempre uno dei miei posti preferiti. Eccomi arrivata. Lego la bicicletta a un palo, ma tanto so che non rischia di essere rubata. Mica come una volta. Ormai di veicoli non motorizzati ce ne sono talmente tanti, e di così tanti tipi, che a nessuno interessa il mio. Passo di corsa davanti alla libreria e alla trattoria. Entro in uno dei palazzi che riempiono la via con i loro mille colori. Mi fiondo al quarto piano. Niente ascensore, nei palazzi storici non è possibile installarli. Mi fermo un secondo a riprendere fiato. Incontro la maestra. A quanto pare mia figlia è nel giardino interno a giocare. Con un sospiro, ricomincio le scale al contrario. Eccola. Mi viene incontro ridendo. Oggi hanno fatto scienze, la sua materia preferita. Da grande continuerà la ricerca per ricavare energia dalle fonti sostenibili, mi dice, proprio come fanno le scienziate di cui ha sentito parlare quella mattina. La prendo per mano, usciamo, recupero la bici e ci incamminiamo. Vuole fermarsi nel “parco fortificato”, come lo chiama lei, a giocare. Quel posto è rimasto identico a quando ero bambina. Volevano rifarlo, ma alla fine ha vinto il comitato che si era fortemente opposto al cambiamento. Ora però, in questo nuovo mondo, è proprio fuori dal tempo. Un po’ fatiscente e un po’ affascinante. Mentre guardo mia figlia che cerca di toccare il cielo dondolandosi sull’altalena, mi viene in mente che dieci anni fa, quando ancora studiavo, un professore mi aveva chiesto come mi sarei immaginata Parma nel 2030. All’epoca mi sembrava un’impresa impossibile. Come potersi immaginare la propria città, la città che si ama, sapendo che il mondo stava prendendo una piega piuttosto negativa? E considerando poi, che per me, che ero finita lontano, era stata una scelta tornare a vivere lì e che avevo rischiato il mio futuro professionale per lei. Ecco, ora è il 2030. Ora finalmente so la risposta. La mia città è diventata esattamente come avrei sperato. Ci siamo accorti in tempo del fatto che poteva essere il luogo più incantevole in cui vivere e la abbiamo aiutata. Ed ora non potrei chiedere di meglio. O forse sì, di meglio si può sempre chiedere. Si può sempre dare e fare di più. Però sono fiera di noi. Sono fiera di tutta l’umanità, di come si è ripresa in tempo e di come oggi i bambini hanno un futuro che dieci anni fa non avrei mai creduto possibile per loro.
Parma è casa mia, l’Emilia è casa mia. Non ho mai capito quanto fossi emiliana fin quando non mi sono trovata in un’altra regione. Dieci anni fa, se avessi raccontato come è Parma nel 2030, mi avrebbero presa per pazza. Non era possibile pensare ad una città in cui ci si sposta in bicicletta o a piedi praticamente sempre. Una città in cui in ogni strada, oltre che una chiesa, c’è anche un parchetto. Una città in cui l’Oltre torrente è diventato il cuore della vita notturna. Una città in cui praticamente tutti i desideri di tutti quelli che la amano sono divenuti realtà.
PIACENZA di Loredana Bossi
Piacenza, La Primogenita. Ebbene si, ho la fortuna, o forse no, di essere nata e cresciuta nella città italiana, che, nel 1848, fu la prima, a votare con un plebiscito, l’annessione al Regno di Sardegna.
Piacenza, è da sempre considerata città “in posizione strategica”, in quanto sita nel crocevia di Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia.
Ha da sempre determinato le sorti strategiche e militari, ed è diventata, nel tempo, un importante nodo autostradale e ferroviario.
La sua posizione la rende “appetibile” per le attività della logistica, che nell’ultimo ventennio, hanno monopolizzato tutte le aree ancora edificabili, e/o riconvertibili.
Amazon, Ikea, Unieuro, per fare qualche nome, hanno posizionato le loro basi logistiche a Piacenza, e da qui, servono tutto il Nord Europa, oltre all’Italia.
Tutto questo ha portato ad un aumento del traffico veicolare pesante, all’aumento dell’inquinamento atmosferico, alla riduzione della produzione agricola, all’aumento di richiesta di mano d’opera, anche se, poco qualificata.
Si parla da ormai un decennio di “portare” la ferrovia nella logistica per far viaggiare tutto su rotaia, ma temo che resterà solo un sogno. Nel 2030 le merci viaggeranno ancora su gomma.
Da trent’anni si parla di costruire una metropolitana “leggera” che unisca Piacenza a Milano, cambiano le amministrazioni, cambiano i governi, passano le generazioni, ma anche questo resterà un sogno. Nel 2030 per andare a Milano, prenderemo ancora il treno, che si fermerà in mezzo alla campagna, senza sapere perché, e tutto ciò, resterà sempre un incubo, soprattutto per tutti quei pendolari che, ogni giorno, partono per questa avventura.
Indiana Jones a confronto è un dilettante!
Treni strapieni, sporchi, rigorosamente in ritardo, cancellati all’ultimo minuto, che dire, nulla cambierà.
Piacenza è nota, ma forse non a tutti, come la città delle 3 C.
Ossia, chiese, caserme e conventi.
Le chiese, alcune bellissime, altre ormai sconsacrate, sono li con la loro storia, senza un futuro scritto e neppure pensato.
Le caserme, immense, ormai vuote, e che nessuno vuole. L’ultimo progetto presentato in questi giorni, riconvertirà una di loro in “cittadella per lo studio” che vedrà la luce tra circa 7 anni, se andrà tutto bene.
I conventi, sempre più silenziosi e “senza vocazione”, resteranno a futura memoria.
Non mi riconosco più nella mia città, vedo intorno a me tanto degrado, e nessuno che ha idee per renderla La Primogenita.
Manca un’idea d’insieme che valorizzi i suoi beni, i suoi palazzi (vedi Palazzo Farnese), i suoi tesori (vedi il Klimt), i suoi territori, le sue Valli, la sua gastronomia.
Manca il rispetto del bene comune.
Tra 10 anni Piacenza, sarà sempre più vecchia, sempre meno a misura d’anziano e di bambino, senza servizi, con la logistica che avrà trovato soluzioni migliori, anche grazie all’innovazione tecnologica, e ci lascerà solo tanto cemento, vuoto, inutilizzabile, che avrà cambiato per sempre la conformazione del nostro territorio.
Nel 2030 una cosa sarà ancora qui, imperterrita, che nulla potrà scalfire, la nebbia. Grigia. Uggiosa. Impenetrabile.
Continuerà a rendere le nostre giornate tristi e lunghissime.
Più passano gli hanno e più mi convinco che vivere a Piacenza, non è più una fortuna.
La città a misura d’uomo che ho vissuto in tutti questi anni, non esiste più, e non potrà più esistere.
Non siamo emiliani, non siamo lombardi, o forse si.
“Ciao come ti chiami?”
“Loredana”
“E dove abiti?”
“A Piacenza”
“A si, la conosco, è in Lombardia. Giusto?”
Mah….forse potremmo iniziare a studiare la geografia….
Per passare poi alla storia, e, magari, ritrovare quel senso di appartenenza alla nostra città, che non c’è più.
La città in mano ai millennials?
Una sfida che Piacenza non credo vincerà.
REGGIO EMILIA di Camilla Beretti
Sin da quando siamo bambini ci si è sempre posti molti quesiti sul futuro.
Domande del tipo:
“Che lavoro farò da grande?”
“A quanti anni mi sposerò?”
“Avrò dei figli?”
“Sarò ricco o povero?”
Potrei continuare ma finirei per essere ripetitiva e ridondante probabilmente.
Una domanda che molti forse non si sono mai fatti è come sarà il mondo nel futuro? Nello specifico, come sarà la mia città, tra 10 anni?Ci potrebbero essere una miriade di risposte e ipotesi diverse e variegate e probabilmente nessuna risulterà essere uguale all’altra.
Nella mia testa una mia idea me la sono fatta anche io.
Innanzi tutto credo che per provare a immaginarsi la nostra città tra un decennio bisogna prima analizzare quello che è il presente e quello che è stato il passato più o meno prossimo.
Se guardiamo lo scenario attuale sicuramente non ci sono proiezioni troppo rosee. Oggi ci troviamo ancora dopo più di un anno nel bel mezzo di una pandemia globale, che ha causato una situazione socio economia per nulla semplice. Detto questo vogliamo essere ottimisti.
Se andiamo indietro e proviamo a ricordare com’era il nostro panorama 10 anni fa invece vediamo un’Emilia non troppo diversa da quella attuale (Covid permettendo). Reggio (ci piace chiamarla così) nel 2011 era una città tranquilla, popolata da poco più da 160.000 persone che trascorrevano la propria vita e avevano le proprie abitudini. Sicuramente con tutti quelli che erano i pro e i contro di una città di provincia come la nostra.
A livello globale i social network si stavano iniziando ad affacciare sul panorama del mondo dei giovani: Facebook era visto come la novità, Instagram era ancora per pochi e Tik Tok probabilmente non era ancora entrato nell’immaginario di chi l’ha sviluppato. Le auto elettriche erano viste come un bene elitario e che nessuno poteva permettersi, e le riunioni in video conferenza non erano contemplate, anche perché la connessione con la fibra che ci permette di navigare oggi, allora non esisteva. I fatti che erano più di attualità 10 anni fa erano la scomparsa di Steve Job, creatore di Apple, il matrimonio reale tra William e Kate, la morte di Osama Bin Laden, mentre a livello sportivo forse si parlava forse ancora della disfatta Sudafricana della nostra nazionale di calcio ai Mondiali. A Reggio si celebravano i 150 anni dall’unità dell’Italia e con grande orgoglio del nostro tricolore nato proprio qui. Sul territorio reggiano invece era già da qualche anno che il comune aveva dato sfogo alla costruzione di innumerevoli rotonde cosparse in tutta la Città; tra i giovani si stava iniziando a frequentare sempre meno la zona del centro storico di piazza San Prospero e sempre di più Piazza Fontanesi: le discoteche andavano ancora tanto, Sali e Tabacchi, Italghisa e Joia su tutte.
E il 2031 come sarà invece? Sarebbe bello anche solo poter sbirciare da un buchino di una serratura per scorgere qualche flash di come potrebbe essere.. Io immagino che Reggio Emilia tra 10 anni sarà una città in continua espansione, sia a livello demografico, probabilmente superando ampiamente i 200.000 abitanti, che in termini di superficie e urbanizzazione. Credo che ci troveremo di fronte a una realtà sempre ampia, in cui gli smartphone saranno diventati ancora più che oggi un prolungamento dei nostri arti superiori. Immagino la zona industriale di Mancasale, San Prospero Strinati e Tribunale con nuovi edifici, sviluppati tutti in altezza, un po’ come è stato a partire da 15 anni fa con la costruzione dei palazzi Unieco e Unipol.
Di sicuro avremo dei Centri commerciali sempre più estesi e ricchi di negozi e attività di varia natura come cinema e ristoranti, un po’ come è stato per i Petali a partire dalla fine degli anni 2000. Senz’altro la zona Sud della città e quindi quella pede-collinare si sarà arricchita di nuove abitazioni, quindi rimarcando ancora di più la differenza tra nord e sud della città, con la prima parte molto più residenziale e la seconda industriale. Dal punto di vista del Digital, credo che saremo verosimilmente al Web 4.0 o 5.0, in cui i social network saranno parte integrante di noi. Mi immagino che la crescita urbanistica non porterà molto ordine in termini di traffico di auto, però voglio sperare che avremo un parco auto per lo più elettriche o chissà magari ci sarà anche qualche vettura alimentata a idrogeno. E le persone come saranno? Credo che i reggiani saranno sempre i reggiani, persone molto concrete e con “pochi bali” come si dice in dialetto, magari un po’ meno provinciali rispetto a ieri e a oggi, e un po’ più gente di mondo per così dire. Questo perché sicuramente da quando si potrà tornare a viaggiare le persone ne approfitteranno: ciò sarà fonte di poter arricchire il proprio bagaglio culturali e di conseguenza i propri orizzonti e la propria mente.
Come sarà esattamente Reggio Emilia tra 10 anni, oggi non lo possiamo sapere con precisione, e anche se a pensarci fa un po’ effetto immaginare il 2031, sono sicura che non sarà così male.
TRENTO di Karin Piffer
Trento, 11 marzo 2090
«Nonna cos’è quello?» chiedeva la bambina puntando il dito verso un’imponente cima mentre tirava la manica della camicia della nonna.
«Quella è una montagna» rispondeva la donna.
«Mongagna?».
«“Montagna” amore! Hai visto come è alta? Pensa che per arrivare fino alla cima devi camminare tanto, e sudi come un cane! Eppure sei così felice quando arrivi fin lassù! Anche se hai fatto tutta quella fatica! Ti senti il padrone del mondo… e poi guardi giù, e tutto sembra così piccolo, insignificante…» la nonna chiudeva gli occhi mentre parlava.
«Oh… sembra bella la montagna! E quello? Quello cos’è???» diceva la bambina con un entusiasmo surreale.
«Quella è la piazza principale, quello è il Duomo di Trento, pensa che lì ci ho sposato tuo nonno! Bello vero?» la donna sorrise.
«Bellissimissimissimissimo! E quello? Quello cos’è?» la bambina non stava più nella pelle.
«Quello è il fiume! Si chiama Adige, come la valle dove siamo. Ah com’è bella la mia valle, incastonata tra le mie montagne…» alla nonnina scese una piccola lacrima sul viso, che prontamente asciugò per non farla notare alla piccola.
«Uoooo… e quelloooo?» la bambina mollò la presa della nonna e corse verso una struttura di legno.
«Quello è Studio Uno! La discoteca dove la nonna andava a fare baldoria negli anni d’oro!» urlò la donna correndo dietro alla bimba.
«Baldoria?» la bambina girò stupita la testa verso sua nonna. Non aveva mai sentito quella parola prima.
«Sì esatto, baldoria! Guarda, si fa così», la donna anziana afferrò le minuscole manine della nipotina e iniziò a danzare. Le due ridevano e danzavano tenendosi per mano. Sembravano aver dimenticato il visore 3D per la realtà virtuale che copriva i loro bellissimi occhi. Attorno a loro non c’era nulla. Non c’erano strade, non c’erano alberi. Niente. C’era solo un cartello sporco e rotto, buttato per terra. Si riusciva a scorgere la scritta “Trento”.
Anni prima, nel 2020, uno strano virus aveva devastato la città. La gente si ammalava e moriva. Dopo anni di coprifuoco, di aree gialle, arancioni e rosse, di inutili lockdown, l’unica soluzione che sembrava possibile per garantire la sopravvivenza umana era stata quella di bruciare, distruggere, eliminare tutto. Ogni cosa era stata rasa al suolo, smantellata, cancellata. La città, le montagne che la circondavano, i fiumi, i boschi. Non c’era più niente.
Eppure quel maledetto virus era rimasto. Il governo per sedare la rabbia e la disperazione dei pochi sopravvissuti, aveva pure erogato degli stupidi “bonus”, l’ultimo era stato il “bonus visore”. Visori a tutti, per non vedere la tragedia che affliggeva la terra. Chi era rimasto cercava di sopravvivere nel “nuovo mondo”, dove non c’era più niente. La gente viveva nel terrore, non usciva dai suoi bivacchi fatti di lamiere. Tutti avevano paura. Paura del virus, paura degli altri. Abbracciarsi, darsi un bacio, darsi la mano, chi era sopravvissuto si era dimenticato che cosa significasse.
Eppure quel giorno, una donnina e la sua nipotina danzavano in mezzo al nulla, mano nella mano, con il sorriso stampato sulla faccia. In una giornata grigia, dalle macerie di quella che una volta era una città meravigliosa, iniziavano ad uscire timidamente delle figure. Tenevano i loro visori di realtà virtuale in mano. Le due donne danzavano, e intorno a loro occhi tristi, nudi, senza uno schermo davanti, le guardavano fermi, in attesa di illuminarsi ancora.
Forse la realtà, per quanto difficile possa essere, è più bella della fantasia?
«Trento è pazzesca nonnina!»
«Lo so» le rispose la donna continuando a danzare.
Una scena bellissima.
SAN NICANDRO GARGANICO di Valeria di Lorenzo
San Nicandro Garganico è un paese situato in provincia di Foggia (Puglia) che conta circa 15.000 abitanti, per la maggior parte anziani. Si tratta di un comune caratterizzato da diverse criticità, soprattutto dal punto di vista culturale, tecnologico e sociale: negli anni si è progressivamente svuotato, poiché le generazioni giovani hanno tentato di trovare fortuna altrove (nel nord Italia o in Germania); il sistema scolastico è in forte crisi, infatti, dato che il numero di studenti è calato nel corso degli anni, soltanto pochi licei sono rimasti attivi nel territorio; le prospettive dei cittadini rimasti sono deludenti, poiché, esclusi alcuni circoli culturali, non esistono più teatri, cinema e biblioteche; a fare da contraltare al possibile svago c’è la vita lavorativa, che rimane fortemente ancorata al settore agricolo. In generale, in questo paese trionfa ancora oggi una visione arcaica della vita, che ha determinato l’insorgenza di una serie di problematiche tipiche per una realtà del sud Italia.
Alla luce della situazione attuale, il futuro di San Nicandro non sembra roseo, soprattutto se si fa riferimento al lungo periodo. Il lento ma inesorabile declino che il comune sta vivendo è destinato a diventare irreversibile qualora non venissero adottate specifiche misure atte a scongiurare questo scenario. Innanzitutto, è auspicabile che entro il 2030 vengano varati progetti di riqualificazione dell’ambiente urbano, in modo tale da ampliare i servizi a disposizione per la popolazione (ad oggi non esiste un sistema di trasporti pubblici) e migliorare la qualità della vita sociale e culturale degli abitanti. Infatti, è necessario adattare il paese a standard più moderni, con iniziative territoriali che portino allo sviluppo di una rete di trasporti, piste ciclabili e aree verdi. Per fare il modo che i cittadini vengano stimolati in questo senso e apprezzino l’incentivo a partecipare attivamente al cambiamento in senso ecologico dell’ambiente circostante, chiaramente il sistema scolastico non può essere lasciato in secondo piano. L’educazione civica dovrebbe essere considerata una delle priorità dell’amministrazione sannicandrese, poiché, oltre al contesto famigliare, è tra i banchi di scuola che si apprendono le basi del vivere civilmente in armonia. Occorre al più presto fornire ai ragazzi strumenti utili per la decodifica della realtà che li circonda, anche implementando strumentazioni tecnologiche. La pandemia ha recentemente dimostrato come il mondo scolastico di questo comune sia totalmente incapace di fornire un adeguato supporto agli studenti per quanto riguarda la formazione a distanza. L’arretratezza culturale naturalmente si riflette anche in campo lavorativo, dove le innovazioni stentano a farsi strada. Secondo recenti studi, ogni 5 anni molte professioni scompariranno o si reinventeranno a seconda dei mutamenti tecnologici in corso, ed è impensabile che questa ondata rivoluzionaria non coinvolga anche gli abitanti di San Nicandro. Essi sono ancora immersi in logiche antiquate, in cui la coltivazione dei campi è ancora il motore principale dell’economia locale. Se nei prossimi anni non verranno presi provvedimenti in termini di miglioramento delle dinamiche lavorative, il paese ben presto si troverà di fronte ad una crisi da cui probabilmente non riuscirà a sopravvivere. Un comparto in cui si dovrebbero riporre più fiducia e più risorse economiche è quello del turismo. Si tratta di un settore che sarà in forte ascesa quando la pandemia potrà essere considerata un lontano ricordo, pertanto andrà valorizzato di conseguenza. Il promontorio montuoso che si estende nel Gargano può rappresentare una grande opportunità per lo sfruttamento turistico di questa zona, che registra già un discreto interesse in quanto si affaccia sul Mare Adriatico.
In conclusione, sono molteplici gli aspetti che occorrerebbe potenziare nell’arco di questi 10 anni, pur tenendo conto della complessità del quadro generale. Realisticamente, se non si affrontano queste problematiche in modo efficace, entro un arco di tempo non lontano dal presente il paese riceverà un duro colpo, dal quale sarà difficile (se non impossibile) riprendersi.
STEFAN VODA (Moldavia) di Elena Topor
La prossima fermata è la nostra. Non torniamo in Moldavia da 10 anni, i bambini non ci sono nemmeno mai stati. Ad essere onesti, non sono proprio mai arrivata a ‘’casa’’ in treno, perché questa ferrovia è stata costruita da poco.
Chiudo il computer, guardo Vadim emozionata e sveglio i bambini. Hanno sparpagliato giocattoli in tutto il vagone, ci vorrà un po’ per riordinarli. Intanto che Vanessa e Alessio sistemano le loro cose, prendo la mano di Vadim. Solo lui può capire cosa significa tornare dopo tanto tempo nel posto dove siamo nati, cresciuti, dove ci siamo conosciuti e innamorati. Certo è anche lo stesso mondo che abbiamo dovuto lasciare per poter sognare una vera vita tutta nostra.
La stazione di Stefan Voda è colorata. È la prima cosa che notiamo entrambi. La Moldavia che ricordiamo non ha colori, è grigia come lo smog. È un grigio triste che copre tutti i grandi palazzoni tipici del periodo comunista, un colore che sembra essere stato assorbito direttamente dalla nebbia e dal freddo dei lunghi inverni.
Abbiamo programmato questo viaggio in primavera, apposta perché i bambini non restassero turbati dall’aspetto cupo della nostra città. Tutti i nostri ricordi più belli sono legati alla primavera, per questo penso anche che tutto per essere piacevole ha bisogno di un po’ di colore.
Stefan Voda sembra aver lavorato in questa direzione negli ultimi anni: uscendo dalla stazione siamo accolti da una piazza fiorita. Aiuole curate e rifinite ne riportano il nome e ci strappano un sorriso. È una bella sorpresa anche per noi.
Insisto per raggiungere a piedi la casa dei nonni, voglio approfittarne per vedere con i miei occhi come si è trasformata la città negli anni che ho passato lontano. Non solo. Credo che raccontare ai bambini come vivevano i loro genitori da piccoli, mostrare loro in quale scuola si sono incontrati la prima volta, sia prezioso per restituire loro un po’ di storia, radici che per le seconde generazioni diventano sempre più difficile da sentire come proprie.
Vadim e i bambini sono entusiasti della mia idea e forse anche perché è un’ottima occasione per sgranchire le gambe dopo il lungo viaggio.
Camminando attraversiamo il piccolo centro della città. Anch’io mi sento come se stessi vedendo Stefan Voda per la prima volta: i palazzi sono curati, tutti, non soltanto il piano dei negozi. Sembra quasi il centro di una città importante, senza panni stesi fuori dalle finestre come una volta, senza ristrutturazioni disomogenee e disordinate. Ogni balcone ha vasi di fiori rampicanti, che regalano all’intera via un aspetto quasi fatato. Per terra non ci sono più cartacce e rifiuti, forse ha vinto l’educazione, forse semplicemente sono bastati dei nuovi cestini per l’immondizia. I bambini non potessero saperlo, ma per queste strade ero abituata a vedere correre gatti e cani randagi. Non pensavo che anche questo problema potesse essere risolto.
Passando per il parco dove incontravo Vadim da ragazza notiamo una nuova vasta area dedicata ai bambini, con gonfiabili e trenini. Vanessa e Alessio impazziscono di gioia, impossibile non fermarsi. Ammetto faccia piacere anche a me. Vadim, nel frattempo si allontana un attimo e torna con una placinta[1] comprata nel chioschetto dove andavamo a pranzare dopo scuola.’’ Non ci crederai, mi dice lui scioccato, c’è sempre la signora Nadejda a servire, ma mi ha parlato in rumeno!’’. Entrare nei negozi russi ed essere serviti in russo per noi è sempre stato piuttosto frustrante.
Mentre si divertivano i bambini sui grandi scivoli, non smettiamo di guardarci intorno con aria sorpresa: sono state costruite perfino le piste ciclabili.
Recuperiamo i bambini tutti sudati e proseguiamo la nostra passeggiata. Strade riasfaltate e con le strisce pedonali ben dipinte, giovani alberi piantati da poco lungo i viali:’’ Stefan Voda, sei davvero tu?!’’
Avvicinandoci della casa dei miei genitori, sento crescere dentro di me tante emozioni.
I bimbi suonano il campanello e corrono dentro.
‘’Nonna, nonna! Questa città è incredibile! Sembra il paese delle fate!’’ dice molto entusiasta la Vanessa.
Io e Vadim ci guardiamo: Forse nei confronti di Stefan Voda siamo stati davvero troppo severi’’.
[1] placinta- è un cibo tipico di Moldavia, Romania e sud dell’Ucraina, che consiste in un tortina tonda riempita con formaggio, patate o altro.
TARANTO di Sara Risolo
Taranto. Anno 2030.
Adesso immaginatevi questa stessa scritta in caratteri digitali che scorrono alla stessa velocità delle lettere nei tabelloni delle stazioni ferroviarie. Avete presente quelle scritte tipo “Arizona. Anno 2274” che compaiono in apertura di quei tipici (e scontatissimi) film apocalittici americani? Così.
Eccoci, torniamo al punto quindi, dove eravamo: “Taranto. Anno 2030.” Vedo davanti a me macchine e autobus elettrici, tabelloni pubblicitari 3D, esercizi commerciali con robot al posto dei commessi, treni che percorrono 800 km in 30 minuti.
Ok, non è vero, sto esagerando. La verità? Credo che ci saranno certamente tanti cambiamenti, ma non radicali. Nove anni sono molti, è vero, e le innovazioni che la scienza, la tecnologia e la società potranno fare saranno notevoli, ma non stravolgenti. Però, per comprendere meglio il mio punto di vista, occorre tornare indietro a nove anni fa.
“Taranto. Anno 2012.”
Siamo in una tipica città del sud Italia: bel clima, quasi sempre mite e soleggiato, buon cibo e ambiente accogliente. Come in tutte le piccole città del meridione, la popolazione risulta abbastanza variegata in quanto a livello culturale e “raffinatezza dei modi”. La moda femminile detta pantaloni aderenti a vita bassa, sneakers Hogan e borsa modello bauletto. Il tutto avvolto da un giubbotto Woolrich lungo, un must per le ragazze della città: si comincia a indossarlo indicativamente verso ottobre (poco importa se ci sono 18 gradi) fino più o meno a metà aprile. Per gli uomini vale la stessa regola (magari senza borsa a bauletto). A questo punto, bello, vestito e profumato, il cittadino medio appena descritto è quindi pronto per fare le sue “vasche”: no, tranquilli, non va a nuotare vestito, semplicemente cammina a mò di sfilata avanti e indietro per i corridoi dei centri commerciali o lungo il viale centrale della città. Non ha una meta, lui cammina.
Ma abbandoniamo temi futili come l’abbigliamento e dedichiamoci a tematiche più importanti, come le infrastrutture e i trasporti. Gli autobus che si vedono circolare per la città hanno un aspetto molto “vintage”, molto vissuto, e passano con una regolarità sconosciuta non solo all’utente, ma probabilmente persino all’autista stesso. Non sai a che ora passa, sai solo che passa. E allora sei lì che attendi, quasi come un atto di fiducia. Probabilmente vedrai arrivare prima Godot, che ti chiederà se vorrai un passaggio.
E vogliamo parlare della sanità? Numero degli ospedali della città: 2. Numero dei pazienti ricoverati: 465258. Numero dei dottori per struttura: 3. Ora, ammetto che le percentuali che ho appena citato non sono proprio precise, ma vi assicuro che non si allontanano tanto dalla realtà. Un sistema in cui ogni anno centinaia di studenti (tra cui futuri medici) lasciano la propria terra natìa in cerca di opportunità migliori, in cui le strutture ospedaliere fanno affidamento su macchinari e tecnologie degli anni ’90 e in cui il cittadino medio si reca al Pronto Soccorso anche solo per un ginocchio sbucciato, non può che andare nel caos. Nel Pronto Soccorso di Taranto vige la stessa regola degli autobus: tu vai lì, sulla fiducia, non sai quando verrai visitato, ma sai che prima o poi accadrà. Nell’attesa, avrai scoperto quanti nipoti ha la vecchietta nella barella in fondo a destra (e se sei fortunato anche i loro voti in pagella), come è caduto il bambino seduto accanto a te (che tra l’altro si scoprirà andare a scuola con i nipoti della vecchietta prima citata) e a quanto è finita la partita che suo padre stava vedendo prima doverlo accompagnare in ospedale. Sarai venuto a conoscenza di un sacco di cose, ma di quando sarà il tuo turno no. Probabilmente ti sarà passato tutto prima di riuscire a essere visitato e, una volta in sala, il dottore ti dirà “Ma lei sta bene! Come mai è qui?”
In ultimo, non certo per importanza, troviamo l’Ilva: un enorme mostro di ferro che inquina la città da oltre 60 anni. È la maggiore causa di malattie e di morte, tuttavia, fornisce lavoro alla metà delle famiglie tarantine. Dà vita e al tempo stesso la toglie. Ogni anno dicono che faranno qualcosa a riguardo, eppure il mostro è sempre lì, e ogni mattina le casalinghe della Città Vecchia sono lì che spazzano via la terra rossa dai balconi.
“Taranto. Anno 2021.”
Da un anno la città vive, come tutto il mondo, col fiato sospeso, in una situazione pandemica senza precedenti.
I trasporti pubblici, già prima poco sfruttati, sono sempre più fatiscenti.
Dopo tre mesi di comportamento diligente e in completa sicurezza la gente ha ricominciato le sue passeggiate per i centri commerciali: Woolrich e pantaloni aderenti – ma a vita alta stavolta – per le donne e Woolrich, pantaloni aderenti e sneakers per gli uomini. Ma, attenzione, c’è una novità, un must per l’uomo medio che vuole sentirsi un piccolo lord: la pochette. Accessorio unisex che ora accompagna le loro sfilate è inoltre la mascherina: nera, azzurra, fucsia, leopardata o con i brillantini, ce n’è per tutti i gusti. Sul corretto utilizzo di tale supporto ci sono ancora alcuni dubbi, ma abbi fiducia mio caro pubblico, come disse un saggio “Ce la faremo!”
Le strutture ospedaliere continuano ad avere macchinari poco all’avanguardia e il personale sanitario ad essere sempre non abbastanza, per cui il sovraccarico di lavoro attuale risulta ingestibile. Talmente ingestibile da finire col non essere gestito.
L’Ilva è ancora lì: hanno spento molti degli alti forni, licenziato i due terzi degli operai, ma l’acciaieria non si spegne mai, la si vede sempre lì fumare in lontananza.
“Taranto. Anno 2030.”
Quello che intendo dire, mio caro lettore, è che nelle città del sud il tempo sembra scorrere sempre più lentamente rispetto al resto del Paese. Ha lo stesso andamento rilassato dei suoi cittadini. Le notizie, le novità arrivano sempre dopo. Per cui, in un arco temporale così breve, non credo si noteranno enormi cambiamenti. Sono passati esattamente nove anni da quando sono partita dalla mia città natale e ogni volta che ci torno mi sembra sempre di ritrovarla come l’ho lasciata. È come se fosse rimasta congelata nel tempo: stessa mentalità, stesse abitudini, stessi problemi.
Ciò che è certo è che tra nove anni mi aspetto una rivalutazione del meridione e qualche studente fuorisede in più che torna nella propria terra d’origine per investirci e puntare sul suo miglioramento. Immagino un ricambio generazionale di medici e strutture ospedaliere rinnovate: almeno sostituire le attrezzature degli anni ’90 con quelle dei primi anni 2000, non chiedo molto.
Anche sul trasporto pubblico ho fiducia. Spero che l’elettrico prenda piede e che, visto che il mostro d’acciaio stenta a spegnersi, che si faccia più attenzione al fattore ambientale. Taranto, col suo mare, il suo clima e la sua storia è una terra stupenda e va preservata. Sulla puntualità dei mezzi continuo a nutrire qualche dubbio: il lupo perderà anche il pelo, ma il vizio…
Infine, unica certezza del mio cuore, sono i passeggiatori seriali dei centri commerciali: sempre col Woolrich (quello non passerà mai di moda), però con scarpe diverse, borse diverse (la pochette ringrazia) e, mi auguro, senza più mascherine. Così, se prima non le indossavano per pigrizia, nel 2030 almeno saranno autorizzati. Per riprendere i loro outfit “perfetti” avranno alla mano il nuovo iPhone 27 Plus, comprato in comode rate da 10 euro al mese per 30 anni. Niente più Facebook, niente più Instagram, chissà su quale social network posteranno le loro foto. E chissà se, miei cari lettori, nel 2030 avrete ancora voglia di leggere le mie parole.
PARMA di Mario Colletti
Parma, 11 marzo 2030
Caro Mario,
stento a credere a quanto riportato nella tua ultima missiva. Io ho conservato il ricordo di una città viva, piena di fervore, aperta alle nuove tendenze, ghiotta di spettacoli e di musica.
Sono sconvolto.
Non suonano più nemmeno le campane delle chiese? E pensare che per secoli sono stati luoghi in cui la musica ha scaldato gli animi di ricchi e poveri. Mi scrivi che nemmeno le canne degli splendidi organi in San Giovanni, San Sepolcro, la Steccata, il Duomo, hanno più emesso un fischio negli ultimi dieci anni. Mentre il fiore all’occhiello della città, il teatro Reggio, ha chiuso i battenti, dopo che gli ultimi ottuagenari che lo frequentavano, sono passati a miglior vita.
Certo, se ai giovani non dai la possibilità di conoscere, ascoltare, studiare, avvicinarsi e amare la musica classica e l’opera, non si può pretendere che riempiano le sale da concerto.
Anche i tentativi degli ultimi vent’anni, volti a difendere l’onore di questa “Città della Musica”, epiteto con cui si designava un tempo la città di Parma, sono andati alla deriva.
Mi racconti della costruzione di una nuova sala concerti, l’Auditorium Paganini, ma più cara alla vista che all’udito: pessima acustica, programmi modesti, esecutori mediocri. Alti solo i prezzi del biglietto, che lievitano sempre più, permettendo solo ai soliti benestanti di scaldare qualche poltrona.
Pensi che la pandemia che ha colpito questa terra nel 2020 ha definitivamente soppresso una creatura già moribonda: la Musica. Da quell’anno, la chiusura di sale e teatri, lo stop a esecuzioni da camera, concerti sinfonici, opera, ne ha accelerato il declino, fino alla scomparsa definitiva.
Perbacco! Parliamo della mia Parma, la città che fu anche di Paganini, Boito, Toscanini, Pizzetti!
Ripeto: stento a crederci.
Mi piace invece il nome della più recente realtà culturale che si è occupata di musica ossia la “Casa della Musica” per l’appunto. Ha cercato, fra il 2005 e il 2020, di coinvolgere i giovani in un progetto di educazione musicale, guida all’ascolto, sviluppo di sensibilità musicale, conoscenza dei generi e degli autori, istituendo anche un Museo del Suono, ma non ha avuto la risonanza che si sperava. Con la pandemia dilagante, nessuno ha potuto accedervi ed è decaduta ogni iniziativa. Anche Traiettorie e Musica Moderna, come Parma Jazz, sono stati fuochi di paglia, lucciole per una sparuta élite di persone.
Mi chiedi allora di comporre della musica in occasione della “morte della musica”?
Bella committenza!
Forse ho capito: ti stai appellando a me affinché una scintilla miracolosa possa riaccendere il fuoco di Euterpe e illuminare di suoni l’amata Parma.
Ma chi la suonerebbe? Leggo nella tua lettera che anche gli studenti del conservatorio di musica hanno appeso gli strumenti a un salice! Le uniche melodie che si odono calpestando le vie del centro della città, escono dalle mani e dal cuore di un musicista rumeno, un fisarmonicista talentuoso che, accovacciato ora in un angolo, ora in una piazza, esegue magistralmente le trascrizioni di tutti i grandi preludi e fughe di Bach con la sua fisarmonica a bassi sciolti. Anche Vivaldi e Mozart. Ma ormai è vecchio, e con la scomparsa di quest’esule, si inabisserà davvero l’ultima nota a Parma.
Tu pensavi che io sapessi tutte queste cose? Beh ti sbagli.
Ti ringrazio per avermele riferite, ma ricorda, io sono in Paradiso. Qui la musica è vita.
Con cordialità.
Giuseppe Verdi
PS: quanto alla committenza, ti prometto che ci penserò su seriamente!